«Nella Chiesa del futuro più potere alle donne»

Mercoledì scorso si è chiusa, a Lugano, la 342. assemblea ordinaria dei vescovi svizzeri. Tre giorni di dibattiti intensi in cui i titolari e i vicari delle diocesi elvetiche hanno affrontato temi e questioni di diversa natura. A conclusione dell’assemblea, il presidente della conferenza episcopale e vescovo di Basilea, monsignor Felix Gmür, ha accettato di rispondere alle domande del CdT.
Monsignor Gmür, per prima cosa vorrei chiederle di che cosa avete discusso in questi tre giorni a Lugano.
«Abbiamo affrontato tutti gli argomenti più attuali, a partire da una riflessione sul sinodo, al quale ho partecipato in rappresentanza della Chiesa svizzera. Ci sono state due relazioni: la mia e quella di Helena Jeppesen-Spuhler, che a Roma rappresentava la Chiesa cattolica in Europa».
Che cosa è emerso dalla discussione?
«Molte cose sono emerse. A Roma abbiamo innanzitutto percepito le sfide della Chiesa a livello universale e, in particolare, la sfida dell’evangelizzazione, che è la nostra missione. Il compito della Chiesa è far conoscere Gesù, oggi e alle generazioni future. Non è semplice, anche per la diversità delle varie realtà ecclesiali, chiamate a confrontarsi con culture, storie, contesti politici e problemi di altra natura: pensiamo all’Africa, o al Medio Oriente, in cui è di nuovo esplosa una terribile guerra».
Nel sinodo si è parlato molto anche delle donne nella Chiesa del futuro.
«Sì, certamente. Il ruolo della donna nella missione evangelizzatrice della Chiesa è stato giudicato da tutti molto importante, anche se con accenti diversi a seconda dei continenti e dei vari Paesi. Ma si è parlato pure dell’ufficio di vescovi e sacerdoti, dunque dei ministeri ordinati. Questo era un punto forte della discussione, così come il tema degli emarginati, di chi si sente escluso o è escluso».
Se lei dovesse volgere lo sguardo alla sola Chiesa svizzera e indicare i punti più significativi trattati nel sinodo di Roma, su che cosa si soffermerebbe?
«Direi soprattutto tre cose. La prima è sicuramente la decentralizzazione. Abbiamo visto già a Roma, e lo avevamo percepito anche qui, nei sinodi in Svizzera, che non è più possibile stabilire regole sui singoli temi che valgano per il mondo intero. Proprio a proposito del ruolo della donna, ad esempio, forse si dovrebbe trovare una soluzione differenziata. O sul celibato dei sacerdoti. Decentralizzare significa prendere in considerazione ipotesi di lavoro diverse, perché ciò che va bene in un Paese può essere problematico in un altro. La seconda questione, cui abbiamo già accennato, riguarda le donne e, più specificamente, l’accesso delle donne al ministero ordinato. A Roma ne abbiamo parlato molto e nel testo finale si fa riferimento alla questione del diaconato della donna. La terza cosa che ci riguarda da vicino è la posizione di potere del sacerdote, del prete. Su questo bisogna cambiare. Non può più esserci un potere unico, serve piuttosto un potere condiviso. Non solo il prete deve comandare, anche altri devono essere coinvolti nei processi di decisione. Questo è un tema molto svizzero».
Sono argomenti molto interessanti, che aprono scenari davvero nuovi. Soprattutto il diaconato femminile che, mi sembra di capire, non significa comunque ordinazione sacerdotale, e la questione del celibato dei chierici. Su questi punti, qual è l’orientamento della conferenza episcopale svizzera? Le posizioni sono unitarie o c'è discussione?
«Per fortuna c’è discussione, così come su ogni argomento. Per quanto, sul diaconato della donna io non vedo tra noi vescovi svizzeri posizioni diverse. Pensiamo tutti che sia utile continuare a discuterne, anche in vista della seconda parte del sinodo che si terrà a Roma il prossimo anno. Il nostro compito è proporre al papa una soluzione che sia percorribile, in vista di una sua decisione. Lei mi chiedeva poi del celibato: è un tema di cui si discute ovunque, allo stesso modo in cui si parla del diaconato delle donne. Penso tuttavia che più del celibato, la questione veramente importante sia la partecipazione, la divisione del potere all’interno della Chiesa, vale a dire la sinodalità concreta. In Svizzera abbiamo costituito una commissione di sinodalità chiamata a rivedere i processi decisionali. Dobbiamo capire come sia possibile trasformare un sistema duale qual è il nostro, talvolta democratico e nello stesso momento gerarchico, in un sistema autenticamente sinodale. E cosa significhi tutto ciò per i nostri processi decisionali, che sono sempre super complicati».
Non sembra semplice.
«No, non lo è. Anzi, è probabilmente la questione più difficile da affrontare per la Chiesa Svizzera».
Monsignor Gmür, martedì scorso, mentre era in corso la vostra assemblea ordinaria, papa Francesco ha nominato padre Jean-Michel Girard amministratore apostolico dell’Abbazia di Saint Maurice. Una nomina compiuta sede plena et ad nutum Sanctae Sedis, ossia senza rimuovere dall’incarico l’abate Jean Scarcella, attualmente sotto indagine dal Vaticano per un’accusa di abusi e temporaneamente sostituito dal priore Roland Jacquenoud, a sua volta costretto a ritirarsi perché sospettato sempre di abusi. Che cosa sta succedendo?
«Siamo tutti molto rattristati per la vicenda di St. Maurice, di cui non siamo stati informati prima. Nessuno di noi conosceva questi casi, questi abusi veri o presunti. Non ne sapevamo niente, anche perché la conferenza dei vescovi non ha un ruolo in queste procedure. Noi possiamo soltanto incoraggiare le vittime a parlare affinché sia fatta luce sui loro casi. Certamente, tutto ciò dimostra quanto sia importante istituire al più presto il Tribunale penale ecclesiastico su cui abbiamo ricevuto il via libera anche del Papa che ha dato, per così dire, il fischio d’inizio».
Ma perché è così importante avere questo Tribunale?
«Stiamo lavorando per completare gli statuti, discutendone al nostro interno e con alcuni esperti. Credo che serviranno ancora sei mesi. Il nostro obiettivo è istituire il Tribunale entro la fine del 2024. Lei mi chiede perché è così importante. La risposta è semplice. Oggi i casi penali sono trattati dai singoli Tribunali diocesani e con regole differenti tra loro. Penso che sia utile avere un’unica legislazione per la Svizzera, che sia necessario applicare sempre gli stessi criteri e che a giudicare siano persone professionalmente capaci e preparate. Anche per questo sarà fondamentale stabilire in modo chiaro chi potrà svolgere il ruolo di giudice in questo Tribunale, a chi spetterà la nomina e quali saranno le competenze».
Due settimane fa, assieme al vescovo di Coira, monsignor Joseph Maria Bonnemain, lei ha incontrato Francesco, Che cosa vi siete detti? Prima mi ha colpito una sua considerazione sul fatto che la Chiesa universale è in realtà molto diversa da zona a zona del mondo. Lei pensa che il Papa argentino abbia la consapevolezza, così come aveva Benedetto XVI, della grande differenza che c’è tra la Chiesa europea e quella degli altri continenti?
«Sì, lo sa perfettamente. Come sa che la Chiesa in Svizzera è un po’ una Chiesa speciale, e che il nostro modello organizzativo è molto particolare, diverso in Ticino rispetto a Lucerna o al Vallese. Ciò detto, con il Papa abbiamo discusso soprattutto dell’istituzione del Tribunale ecclesiastico. E poi degli archivi diocesani. Abbiamo spiegato a Francesco perché non vogliamo più rispettare il secondo comma del canone 489, quello cioè che prevede la distruzione dei documenti relativi alle “cause criminali in materia di costumi, se i rei sono morti oppure se tali cause si sono concluse da un decennio con una sentenza di condanna”. Abbiamo evidenziato l’illogicità di una norma che contrasta con altre, ad esempio con i tempi più lunghi della prescrizione. Credo che il Papa abbia capito le nostre ragioni e il motivo per cui abbiamo deciso di non applicare più quello specifico comma. Non so, forse servirebbe una modifica del Codice di diritto canonico».
Nei giorni scorsi, una quarantina di sacerdoti della diocesi di Coira - espressione forse della parte più conservatrice - si è rifiutata di firmare il codice di condotta per la prevenzione degli abusi voluto dal vescovo Bonnemain nella diocesi di Coira. Ad avviso di questi preti, il documento sarebbe in parte in contrasto con la morale sessuale della Chiesa e con la concezione cattolica del matrimonio. Che ne pensa? La preoccupa?
«In conferenza episcopale ne abbiamo preso atto ma non possiamo esprimere un giudizio che compete soltanto al vescovo di Coira. Certo, mi preoccupa, ma devo anche dire, nello stesso momento, che è normale in Svizzera, esprimere un dissenso. C’è il diritto di dire no e di discutere, mi pare naturale e non sono sorpreso per questo».
Ma la divisione tra una Chiesa conservatrice e una Chiesa più progressista, secondo lei, c'è? È reale? O, come «al solito», siamo noi giornalisti a ingigantire la situazione?
«Forse i giornalisti un po’ alimentano la questione, anche perché è il loro business. Tuttavia, al recente sinodo di Roma ho sentito pure io alcune voci di esponenti conservatori, di chi pensa cioè che il Papa vada troppo veloce o in una direzione sbagliata. Ed è curioso il fatto che siano proprio questi conservatori a non rispettare la disciplina, a mettere in discussione il vicario di Cristo e l’autorità papale. Non si può comunque negare che la questione esista, che sia reale. Nella Chiesa ci sono diversi fiumi. È sempre stato così. Non parlerei, però, di divisione, quanto piuttosto di opposizione».