L'approfondimento

Non è che non sappiamo leggere, è che non sappiamo più farlo fino in fondo

Analfabetismo funzionale — la lettura rallenta, l’attenzione si frammenta: numeri, idee e storie per capire cosa significa vivere in una società che non smette di leggere, ma spesso smette di capire
© Shutterstock
Asia Della Bruna
08.11.2025 23:28

Negli ultimi anni, con regolarità quasi stagionale, riemerge sui giornali il timore che «non sappiamo più leggere». Non si parla di analfabetismo in senso stretto, ma di qualcosa di più sottile: l’incapacità di comprendere testi complessi, collegare le informazioni, argomentare. Il concetto che in inglese viene indicato come functional illiteracy — la condizione in cui si sanno decodificare le parole ma non utilizzarle pienamente nella vita quotidiana — è entrato nella letteratura educativa e statistica fin dalla metà del XX secolo, per descrivere adulti che, pur avendo avuto una scolarizzazione, non dispongono delle competenze necessarie a partecipare pienamente alla società. Un fenomeno che non riguarda solo chi non ha studiato, ma attraversa età, professioni, Paesi.

Cosa dicono i dati

Secondo l’OECD Survey of Adult Skills (PIAAC) – l’indagine internazionale promossa dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, che coinvolge oltre trenta Paesi e valuta le competenze degli adulti tra i 16 e i 65 anni – circa un adulto su quattro fatica a comprendere testi di media complessità.

PIAAC non misura quanta «cultura generale» possediamo, ma quanto siamo in grado di utilizzare la lettura, i numeri e le informazioni digitali nella vita quotidiana: compilare un modulo, interpretare un referto medico, orientarsi tra comunicazioni bancarie o istruzioni scritte.

Gli ultimi dati disponibili (raccolti tra il 2022 e il 2023) mostrano che circa il 25% degli adulti nei Paesi partecipanti si colloca nei livelli più bassi di comprensione del testo. In Italia la percentuale supera il 30%; in Svizzera si aggira intorno al 20%.

Gli studi sul tema non parlano di colpa individuale, descrivono piuttosto un cambiamento culturale. Le neuroscienze mostrano che la lettura profonda — quella che richiede deduzione, memoria, confronto di idee — è un’abilità che si allena. E si disallena.

La neuroscienziata Katarzyna Chyl, che ha studiato gli adulti con competenze di lettura ridotte (Università di Varsavia, 2024), spiega che l’analfabetismo funzionale non è mancanza di intelligenza, ma mancanza di allenamento cognitivo: meno tempo trascorso a seguire un ragionamento scritto, più esposizione a contenuti frammentati e veloci.

Non è mancanza di capacità; è mancanza di esercizio. Se per ore ogni giorno scorriamo testi brevi, video o caption emozionali, il cervello si adatta a quella velocità. E fatica a reggere una pagina, figurarsi un libro.

Verso una società post-alfabetica?

È in questo scenario che alcuni osservatori hanno iniziato a parlare di una possibile «società post-alfabetica». Il giornalista britannico James Marriott, in un articolo molto discusso sul Times, sostiene che la nostra epoca sta progressivamente perdendo la pratica della lettura lunga e concentrata.

Prima di lui, negli anni Ottanta, il critico dei media Neil Postman aveva già colto questo rischio. Nel suo saggio Divertirsi da morire, osservava come il passaggio dalla cultura della stampa a quella dell’immagine trasformasse non solo ciò che vediamo, ma il modo stesso in cui pensiamo. La lettura — diceva — costringe a seguire una linea, a ordinare idee, a dedurre; l’immagine, invece, offre frammenti immediati, emotivi, difficilmente discutibili.

Parlare di «società post-alfabetica» non significa immaginare un mondo in cui si torna all’analfabetismo, ma uno in cui la lettura smette di essere lo strumento principale per capire il mondo. Le informazioni non scompaiono, anzi aumentano. Cambia il modo in cui le assorbiamo.

Un Paradosso: scrivere per chi non c'è

Parlare di analfabetismo funzionale attraverso un articolo scritto è, in sé, un piccolo paradosso. Perché è proprio chi non è qui — chi si è fermato prima — che questo tema riguarda di più. È un discorso rivolto agli assenti, a chi vive le conseguenze di una società sempre più complessa senza avere pienamente accesso agli strumenti per interpretarla. Non c’è giudizio in questa assenza: c’è piuttosto l’evidenza di un divario.

Verrebbe da scrivere una parola del tutto casuale — «ippocastano» per esempio — e dire che chi è davvero intrappolato nell’analfabetismo funzionale non arriverà a incontrarla.

L’analfabetismo funzionale non è una condanna definitiva. Anche qui in Svizzera esistono percorsi che lo dimostrano. Da anni vengono offerti corsi per adulti che desiderano rafforzare le competenze essenziali: comprendere un testo, scrivere in modo chiaro, gestire semplici calcoli nella vita quotidiana, muoversi tra moduli online e servizi digitali.

Questi progetti fanno parte del programma federale «Grundkompetenzen Erwachsener» (competenze di base per gli adulti), promosso dalla Segreteria di Stato per la formazione, la ricerca e l’innovazione (SBFI) — l’ente federale che coordina le politiche educative nel Paese — e realizzato in collaborazione con i cantoni. Mostrando cosi che, con strumenti accessibili e concreti, è possibile recuperare abilità che sembravano perdute o mai consolidate.

Sul tema si muovono due narrazioni opposte. Da un lato quella allarmista: «gli smartphone ci stanno rendendo incapaci di pensare». Dall’altro, quella che minimizza: «ormai leggiamo in modi diversi, non è un problema». La realtà è più complessa. Il problema non è che esistano video brevi o contenuti rapidi; è che non tutti hanno la possibilità di scegliere anche altro. La libertà di informarsi, di capire, di partecipare, richiede strumenti che non nascono spontaneamente, ma si coltivano.

Arrivare in fondo a un testo è diventato un gesto controintuitivo. Non segue il ritmo degli schermi, non promette ricompense immediate.

E ora sai anche — se già non lo sapevi — che l’ippocastano è un albero. I suoi frutti, simili a castagne lucide, non si mangiano ma si conservano in tasca come talismani contro i reumatismi. Non cambia il mondo saperlo. Ma cambia il modo in cui lo abitiamo: aggiunge un dettaglio, un nome, una parola in più.