Il ricordo

«Non è il primo suicidio e non sarà l’ultimo»

Gli amici afgani di Arash si sfogano: «Siamo trattati come oggetti»
© Ti-Press / Francesca Agosta
Andrea Bertagni
Andrea Bertagni
16.07.2023 07:00

«Non è il primo suicidio e non sarà l’ultimo». Mohammad, come quasi tutti qui nella sala multiuso del centro Cittadella di Lugano, conosceva Arash, il giovane afgano che si è tolto la vita martedì nel Centro per richiedenti l’asilo di Cadro. Lo conosceva perché era suo amico. E, nel giorno in cui è stata predisposta la veglia funebre, fa una previsione drammatica come la morte del suo amico. «Non è il primo suicidio e non sarà l’ultimo», ripete, sapendo come tutti qui, che a togliersi la vita da luglio 2022 a oggi sono stati con Arash tre richiedenti l’asilo afgani.

Maftun e Hamidreza annuiscono. I loro occhi sono ancora umidi. Vedono ancora Arash disteso sul pavimento della stanza del Centro per richiedenti l’asilo di Cadro. L’hanno trovato agonizzante, appeso con una corda attorno al collo. «Non siamo riusciti a salvarlo», ripetono una, due, tre volte. Hamidreza ha un motivo in più per essere sconvolto. «Tre mesi fa anche io ho tentato il suicidio e a salvarmi, a prendermi in tempo, è stato proprio Arash». Stavolta, invece, non c’è stato nulla da fare. Neppure la respirazione bocca a bocca praticata da un agente di sicurezza è riuscita a scongiurare la morte del giovane. Che aveva 20 anni ed era arrivato in Ticino nel 2019.

«Era bravo e intelligente»

Nella sala multiuso una preghiera riecheggia all’infinito come una nenia. Il viso di Arash è incorniciato dentro una fotografia. Sorridente. Davanti alla foto decine e decine di persone stanno in silenzio. C’è chi prega. Chi è in raccoglimento. «Arash ha iniziato a stare male due anni fa - spiega Mohammad - ma prima di stare male era bravo, gentile, stava studiando per imparare l’italiano e voleva conseguire una formazione per ottenere il permesso B». Anche Maftun lo ricorda allo stesso modo. «Andavamo a correre insieme, facevamo passeggiate, era il mio migliore amico. Se martedì invece di essere sul balcone a fumare fossi rimasto in stanza, forse Arash sarebbe ancora vivo», si colpevolizza.

Le accuse

Eppure, secondo gli amici di Arash, i colpevoli sono altri. Mohammad, Maftun e Hamidreza sono arrabbiati. A stento riescono a trattenere le emozioni. E forse oggi va bene anche così. «Da quando è andato all’Ospedale neuropsichiatrico cantonale di Mendrisio, da quando lo hanno medicalizzato, riempito di farmaci troppo forti, Arash è cambiato, non è stato più la stessa persona», affermano, puntando il dito contro un sistema che secondo loro non vuole curare e sostenere, ma soltanto stabilizzare, evitare costi e altri problemi. Dice Maftun: «Quest’anno già quattro miei amici sono andati a Mendrisio. Vanno lì e non tornano più come prima». Anche Hamidreza è d’accordo. Talmente d’accordo che ha imparato a tenere la bocca chiusa, «a non lamentarmi troppo, altrimenti mandano a Mendrisio anche a me».

«Questa non è accoglienza»

Ai quattro amici si aggiunge Zara, anche lei afgana. Ha 21 anni ed è in Ticino da quando ne aveva 16. «Ci trattano come numeri, non come esseri umani - accusa - non si prendono cura realmente di noi, gli basta darci un letto e un pasto al giorno, ma noi siamo essere umani come voi, abbiamo bisogno di avere una vita sociale, di lavorare. In più siamo scappati da una guerra, dal nostro Paese, ne abbiamo viste di tutti i colori, abbiamo tutti i nostri motivi per soffrire».

Eppure, ripete Zara, gli afgani sono trattati come oggetti e visti solo attraverso il pezzo di carta che hanno in mano. «Io ho il permesso B ma sono uguale ai miei connazionali che hanno l’F. Perché dovremmo essere diversi solo perché abbiamo documenti differenti?». Zara è arrabbiata e quando parla si emoziona e piange. «Accoglienza significa essere gentili e prendersi cura delle persone - continua - altrimenti cosa ci accogliete a fare? Perché ci dite che ci potete accogliere e poi non ci trattate come esseri umani. Anche noi vogliamo sentirci a casa».

Il suicidio sventato

Zara è sicura. Tutti questi suicidi non sono avvenuti per caso. «Il peso da sopportare è enorme. Il non sapere se potremo restare, il vivere senza poter esprimere i propri sentimenti in strutture troppo essenziali, la mancanza di trattamenti e cure psicologiche e sociali, tutto ciò porta gli afgani che richiedono l’asilo e che sono molto spesso minorenni o giovanissimi a implodere, a non vedere più un futuro e perciò a rinunciare a vivere».

Mohammad, Maftun e Hamidreza annuiscono. Perché stanno vivendo quello che sta dicendo Zara sulla loro pelle. Quando Zara smette di parlare è Maftun a prendere la parola. «Proprio ieri, venerdì, a Castione un altro afgano ha tentato di uccidersi ma i suoi amici gliel’hanno impedito». A tutti risuonano le drammatiche parole pronunciate in precedenza da Mohammad. «Quello di Arash non è il primo suicidio e non sarà l’ultimo».

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