«Non volete fare figuracce? Allora studiate bene l’italiano»

Sui social - ma non solo lì - se ne leggono di tutti i colori: gli errori di grammatica, di sintassi e di senso abbondano. Non si creda che passino inosservati. «Magari li legge anche il vostro potenziale datore di lavoro che poi non vi assume». Parola della linguista Vera Ghena (nella foto Costamagna sotto), autrice del saggio Prima l’italiano, Newton compton editore.

Vera Gheno, perché un nuovo manuale sull’uso della lingua? Non bastano la grammatica e la sintassi?
«Sono sociolinguista sedicente militante, per cui ritengo che ci sia un dovere sociale nell’essere linguisti. La mia idea è che ancor prima di poter pensare di essere ’’cittadini 3.0’’ nella realtà molto complessa in cui viviamo, occorre avere il dominio della propria lingua madre. Una competenza che viene spesso data per scontata, perché impariamo a parlare molto precocemente nella nostra vita. Ma se non siamo sollecitati a un esercizio apposito, per esempio studiando materie linguistiche all’università, per tantissimi anni facciamo un esercizio prettamente tecnico sulla lingua, e raramente ci si sofferma sul significato della competenza linguistica. Per vent’anni ho collaborato con l’Accademia della Crusca, e lavorando soprattutto nel mondo di twitter mi sono resa conto che le persone da una parte sono iper protettive rispetto alla loro competenza linguistica, ma un po’ a torto. Non sempre all’iper protettività è accoppiata una competenza altrettanto buona. Ci si arrocca facilmente su false convinzioni e non si ha consapevolezza della complessità della lingua».
Lei lancia un allarme sulle ricadute negative d’immagine di un cattivo uso della lingua italiana.
«Certo. Trovo ovunque brutte figure linguistiche, non solo nei social. E non solo nella lingua italiana. Nelle lingue che conosco vedo situazioni simili. Da una parte una certa sciatteria nell’uso della lingua madre e dall’altra tantissimo stigma sull’uso della lingua».


Cioè?
«Le persone molto spesso non se ne rendono conto, ma vengono giudicate sul modo in cui si esprimono, anche su errori banali. Quando insegno all’università dico sempre ai miei studenti che non devono scrivere ’’lì’’ con l’accento per fare piacere a me, ma perché se lo fanno in una lettera di accompagnamento a un curriculum, rischiano di essere scartati. Dal punto di vista linguistico, il livello ortografico è il più superficiale e meno interessante, ma è anche quello che è più stigmatizzato dai parlanti comuni».
Lei sostiene che per acquisire competenza linguistica, non basta studiare l’italiano a scuola.
«Esatto. La lingua è una competenza molto complessa e piena di situazioni poco chiare in cui bisogna calarsi. Invece spesso tendiamo a scegliere la soluzione più semplice per esprimerci, quella che ci viene in mente per prima. Non è un buon modo per esercitarsi. Se dovessi fare un paragone fisico direi che è un po’ come se prendessimo l’ascensore invece di fare le scale a piedi».
Su cosa si sbaglia di più?
«Una cosa che stride molto nel parlato è l’accentazione. Spesso gli amanti della lingua si lamentano di come vengono pronunciate le parole, per esempio in radio. Sulla pronuncia abbiamo tutti un’antennina ritta alla ricerca dell’errore. Colpisce anche l’uso sbagliato dei verbi. Per esempio il transitivo nei verbi intransitivi, che è normale nei dialetti meridionali, ma che nell’italiano standard è come l’unghia sulla lavagna. Per non parlare degli errori marchiani, del tipo ’’se io sarei’’, che non mancano mai».
Nell’ultima parte del libro lei passa in rassegna una serie di miti linguistici. Di cosa si tratta?
«Lo spiego con un esempio. Ci vuole o non ci vuole l’accento nell’espressione se stesso? Sono figlia di una scuola in cui se avessi scritto se stesso con l’accento mi avrebbero tirato bacchettate sulle dita. Poi da grande, ho frequentato le grammatiche non scolastiche ma scientifiche, e soprattutto il linguista Luca Serianni, che aveva fatto una ricerca su questo tema e non aveva trovato traccia di questa regola. Aveva concluso che la regola era nata in ambito meramente scolastico nella prima metà del Novecento. Allora mi sono appassionata a questo argomento».
E quindi?
«Quindi, se ci pensiamo a mente fredda, resistendo all’istinto pavloviano di scattare di fronte al se stesso accentato, effettivamente è una regola priva di senso. È l’unico caso di parola in italiano che dovrebbe cambiare grafia a seconda del contesto. Le parole hanno una grafia standard, al massimo delle varianti locali. Dal punto di vista della logica linguistica l’idea che il se (pronome) dovrebbe perdere l’accento in un unico caso perché in quell’unico caso non è ambiguo, non ha alcun senso. Perciò condivido appieno le conclusioni di Serianni: non abbiamo nessuna ragione al mondo per togliere l’accento in quel caso. L’unica cosa che aggiungerei è di ricordarsi di mettere l’accento giusto, quello acuto».


D’altra parte la lingua è una cosa viva, cambia nel tempo, le norme non sono dogmi.
“Assolutamente vero, la norma non è un dogma, ma è quella cosa che ci permetto di capirci con minor sforzo. Per David Foster Wallace parlare secondo la norma è una forma di cortesia nei confronti del nostro interlocutore, perché ogni volta che ci scostiamo dalla norma lo costringiamo a fare uno sforzo in più per capirci».
Lei ha scritto anche un libro sul potere delle parole. Quanto sono potenti le parole oggi, mentre vengono inflazionate ovunque?
«Molto. E lo dimostra la situazione che stiamo vivendo. Ho scritto un’analisi per Treccani sulla narrazione del coronavirus in cui si vede in che modo, di fronte agli stessi fatti, le parole sono cambiate modificando la percezione del pericolo. Il potere della parola in questo momento è quello che permette di mantenere un discrimine tra panico indistinto e ragionevolezza».
Nel caso specifico com’è cambiata la narrazione dell’epidemia?
«Ho individuato tre fasi narrative. Finché la questione era relegata in Cina se ne parlava in termini post apocalittici, ma anche come di un evento lontano che non ci toccava. Quando l’epidemia è arrivata in Italia ci sono stati un paio di giorni di follia nella stampa. Ho visto titoli come ’’Nord in quarantena’’ per poi scoprire che si trattava non di tutto il nord ma di precise e circoscritte zone rosse. Anche i toni allarmistici sul primo morto facevano passare in secondo piano il fatto che si trattava di un 77enne con tante comorbilità. Era morto sì, ma non solo per il coronavirus. In questa fase è stata scatenata un’ondata di panico, si è parlato di untori evocando fasi storiche precise. Poi, per motivi economici e politici è stato fatto un richiamo alla sobrietà e gli stessi che avevano acceso il fuoco delle masse hanno attenuato i toni. Dimenticando di essere stati loro stessi ad accendere il fuoco».
Si riferisce ai giornalisti.
«Certo, non a tutti ovviamente e per fortuna. Ma fino a diversi giorni fa si leggevano titoli che erano da denuncia».


Lei ha un occhio di riguardo per la declinazione femminile delle parole.
«Nel gestire il Twitter della Crusca mi sono ritrovata spesso a twittare di questioni legate al genere. Soprattutto nell’ambito del lavoro, con femminili come ministra, assessora, architetta, ingegnera. Ogni volta che twittavo qualcosa in merito arrivavano critiche o beffeggiamenti. In gran parte erano frutto di un riflesso di fastidio non ponderato basato su convinzioni errate».
Cioè?
«Ricevevo reazioni del tipo: se voi volete dire ministra, io da domani dico pediatro. Una reazione che può avere solo una persona che non conosce l’etimologia delle parole. C’è chi ha scritto: cosa dovrebbe dire la guida turistica se è un maschio: guido turistico? Una serie di assurdità di cui ho poi fatto la raccolta ricavando un saggio che intitolato “Femminile singolare”».

Il libro
Qual è va senza apostrofo? Valigie o valige? Perchè o perché? Vera Gheno ha scritto un saggio semplice e di facile lettura, un manuale ricco di esempi e consigli per evitare gli errori più comuni dal titolo Prima l’italiano. Come scrivere bene parlare meglio e non fare brutte figure, edito da Newton Compton.
L’autrice
Sociolinguista specializzata in comunicazione digitale e traduttrice dall’ungherese, Vera Gheno ha lavorato per vent’anni con l’Accademia della Crusca nella redazione della consulenza linguistica e gestendo l’account Twitter dell’istituzione. Collabora stabilmente con la casa editrice Zanichelli. Insegna all’Università di Firenze, al corso di laurea di Scienze Umanistiche per la Comunicazione, dove tiene da molti anni un Laboratorio di italiano scritto. Ha pubblicato: Guida pratica all’italiano scritto (senza diventare grammarnazi) (2016), Sociallinguistica. Italiano e italiani dei social network (2017), Tienilo acceso. Posta, commenta, condividi senza spegnere il cervello (con Bruno Mastroianni, 2018) e Potere alle parole. Perché usarle meglio (2019).