L'analisi

Nonostante la storia passata, banche poco capitalizzate

Antonio Foglia (Banca del Ceresio) non crede che siamo di fronte a una crisi sistemica – La vicenda di Credit Suisse e prima ancora quella della Silicon Valley Bank devono far interrogare i regolatori sulla qualità e l'adeguatezza dei mezzi propri
© Chiara Zocchetti
Generoso Chiaradonna
29.03.2023 06:00

«Le banche sono davvero solide? Le scelte fatte per gestire questa crisi sono quelle più sagge?» E infine, «la recente scelta della BCE e di altre banche centrali (Fed e BNS) di un ulteriore rialzo dei tassi è corretta? Che cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi mesi?». Sono le domande a cui è stato chiamato a rispondere Antonio Foglia, vicepresidente della Banca del Ceresio in un webinar organizzato da Ruling Companies a cui hanno partecipato più di 200 persone attive del mondo finanziario e imprenditoriale tra l’Italia e la Svizzera.

Il fallimento della Silicon Valley Bank (SVB) e la recente crisi del Credit Suisse sono apparsi almeno ai non esperti come fulmini a ciel sereno. In realtà sono anche effetti collaterali della politica di rialzo dei tassi delle banche centrali, nata per fermare l’inflazione «raffreddando» però al tempo stesso l’economia. Governi e banche centrali si sono affrettati a dire che questi non sono avvenimenti «sistemici» e che il sistema bancario è solido. Sembra però che per salvare i portatori di interesse di queste due entità siano state fatte delle scelte che tutelano immotivatamente alcuni stakeholders a discapito di altri. Su questo ultimo punto Antonio Foglia ha precisato che nel caso di Credit Suisse, era nota ai sottoscrittori delle famigerate obbligazioni convertibili AT1 (CoCo Bonds, n.d.r.) la clausola che si sarebbero azzerate in caso di aiuto pubblico. «Il prospetto informativo di questi titoli portava chiaramente questa informazione. Clausola presente non solo in Svizzera, ma anche in Asia», ha affermato l’economista e banchiere Foglia. Della solidità patrimoniale delle grandi banche è però un po’ meno certo. «Se prendiamo le ultime tre importanti crisi di banche - Banco Popular (2017), Silicon Valley Bank e Credit Suisse (2023) - notiamo che tutti e tre questi istituti rispettavano i requisiti di capitalizzazione in termine di Tier 1 previsti dagli accordi di Basilea III: tra il 13 e il 14%». Il Tier 1 ratio minimo è dell’8%. Questo non ha impedito una crisi di fiducia e poi di liquidità soprattutto per Credit Suisse. Nel caso di SVB si sono aggiunti problemi dei regolatori che hanno permesso di non contabilizzare in tempo reale il valore degli attivi a quello di mercato. SVB - ha spiegato Foglia - aveva perdite potenziali per circa 16 miliardi di dollari, mentre i mezzi propri erano di 12 miliardi e nel frattempo chiedeva un aumento di capitale da quasi due miliardi. Gli investitori non ci hanno più creduto. La metafora che ha usato il vicepresidente della Banca del Ceresio per descrivere la situazione è molto efficace: «I regolatori permettono di andare a 400 all’ora e queste banche erano dei pullman che si sentivano al sicuro a viaggiare a 200 all’ora. La sbandata in questo modo è certa alla prima curva».

Intanto è emerso che nel 2019 le autorità svizzere (BNS e Finma) hanno concluso che le due maggiori banche del Paese, UBS e Credit Suisse, non potrebbero più essere salvate in caso di crisi di liquidità utilizzando le misure di emergenza messe in atto dopo il crollo finanziario del 2008. Ne ha scritto ieri il quotidiano londinese Financial Times. 

«I requisiti speciali di liquidità per le banche di importanza sistemica previsti dall'ordinanza sulla liquidità non garantiscono la maggiore resilienza di queste istituzioni richiesta dalla legge bancaria», affermava quasi quattro anni fa un gruppo di lavoro governativo composto da membri del Dipartimento federale delle finanze, della Banca nazionale svizzera e dell’autorità di regolamentazione del mercato Finma.

Inoltre, il gruppo aggiungeva che non c'era alcuna possibilità di una liquidazione ordinata di una delle due grandi banche senza un sostegno governativo molto più consistente di quanto previsto in precedenza. Un riassunto del lavoro del gruppo è stato reso noto nel rapporto annuale della Finma, pubblicato martedì, di questa settimana e sottolinea quanto il quasi collasso del Credit Suisse sollevi seri interrogativi per le autorità di regolamentazione di tutto il mondo.

Il colpo sulla cassa pensione

Il tracollo di Credit Suisse ha comportato una perdita di 110 milioni di franchi per la cassa pensione di Migros, gruppo che con i suoi quasi 98 mila dipendenti è il maggiore datore di lavoro privato della Svizzera. Stando a quanto indicato dalla responsabile finanziaria della federazione delle cooperative Migros (FCM) Isabelle Zimmermann, la maggior parte del rosso deriva dall’azzeramento delle ormai famose obbligazioni AT1, i titoli il cui valore è stato cancellato con un tratto di riga dalla Finma, ciò che ha causato turbolenze anche a livello internazionale.

 Da sola questa decisione - un tassello dell’acquisizione di CS da parte di UBS, mossa orchestrata dal Consiglio federale, che ha parlato di operazione commerciale pur applicando il diritto d’emergenza (diritto di necessità nella traduzione federale del termine Notrecht) - è costata 100 milioni all’istituto di previdenza professionale di Migros.

Gli altri 10 milioni sono legati al crollo del corso dell’azione Credit Suisse in borsa. I 110 milioni di franchi rappresentano comunque solo lo 0,4% del totale di bilancio del fondo pensione del gruppo, sottolineano i vertici del colosso del commercio al dettaglio. Tracce del disastroso andamento del valore CS sono visibili anche nel portafoglio di investimenti di FCM, ha precisato Zimmermann all’agenzia Awp. Ma questo è stato più che compensato dal buon andamento del titolo UBS.

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