«Nonostante le complessità, non c'è alternativa alla democrazia»

Alain Berset ha preso possesso del suo nuovo ufficio, nel cuore del Consiglio d’Europa, lo scorso 18 settembre. Da allora, i dossier piovuti sulla sua scrivania sono stati parecchi. Al punto che non vuole neppure essere ritratto lì dietro. Ci saremmo preoccupati, piuttosto, se avessimo trovato un ufficio vuoto e una scrivania sgombra. Glielo facciamo notare, lui abbozza un sorriso, poi torna serio, rivolto al futuro. Di lì a pochi minuti lo attendeva un viaggio in Armenia.
Signor Berset, lei è segretario generale del Consiglio d’Europa. Qual è, a suo avviso, il ruolo più urgente che questa istituzione deve giocare in un’Europa attraversata da guerre, populismi e crisi democratiche?
«Occorre, a mio modo di vedere, tornare alle origini. Che cosa c’è alla base dell’Europa, se non un forte attaccamento ai valori comuni? L’Europa è una somma di Paesi democratici, e allora bisogna risalire al senso più profondo della democrazia, al fatto che la popolazione decida per il proprio meglio. In secondo luogo, c’è lo Stato di diritto, che ci ricorda che non esiste l’arbitrario, che ci sono regole che dobbiamo conoscere e rispettare. E sappiamo che quando le infrangiamo, ci sono conseguenze. Il terzo elemento è il livello di protezione, molto alto, dei diritti umani. Come individui, abbiamo bisogno di sapere che i nostri diritti individuali saranno protetti e rappresentati. Questa, in sintesi, è la nostra urgenza. Può sembrare ovvio, ma è particolarmente importante, oggi, in un momento in cui vediamo la democrazia arretrare, i diritti umani in declino e lo Stato di diritto non più ovunque rispettato».
Il Consiglio d’Europa ha assunto una posizione chiara e inequivocabile contro l’aggressione russa, arrivando a espellere Mosca. Era il 2022. Ma oggi, a oltre tre anni dall’invasione, quale può essere il contributo concreto dell’organizzazione alla causa ucraina, al di là delle dichiarazioni di principio?
«Il contributo del Consiglio d’Europa è molto forte, in termini assoluti. È una questione di responsabilità. La Corte europea dei diritti dell’uomo, che è il primo pilastro in termini di responsabilità, si sta occupando di casi di violazione dei diritti umani nel contesto dell’aggressione all’Ucraina. Un secondo elemento, il secondo pilastro, è il cosiddetto Registro dei danni per l’Ucraina. Nel maggio del 2023 il Consiglio d’Europa ha istituito un registro di tutte le distruzioni causate dalla guerra. Questo è l’unico modo per poter prevedere un risarcimento. Abbiamo già più di 30.000 richieste. Ma che cosa è danno? È la distruzione di una casa privata, la morte di una persona cara. Sono tutte, ma proprio tutte le drammatiche conseguenze della guerra. Tutte documentate ad altissimo livello, e questa è la base di cui abbiamo bisogno per poter riparare i danni una volta per tutte. Abbiamo parlato di due pilastri, ce n’è un terzo. Si tratta del Tribunale speciale per l’Ucraina, che sarà chiamato a giudicare il crimine di aggressione della Russia contro l’Ucraina. Si tratta quindi di un’azione molto concreta, che sta accadendo e che va ben oltre le parole. Ci sono molte organizzazioni che parlano ma non possono agire davvero. Noi lo stiamo facendo. Il sostegno è spesso una questione di responsabilità.
Da consigliere federale a segretario generale del Consiglio d’Europa, come si è evoluta la sua sensibilità rispetto alla guerra d’aggressione contro l’Ucraina?
«Fondamentalmente, non è cambiata. È inaccettabile e insopportabile vedere un Paese attaccare militarmente un altro e non fare nulla per risolvere le divergenze attraverso il dialogo. Ora, semplicemente, ho una funzione diversa. Ciò che ho dovuto fare, in Svizzera, è stato sottolineare le leggi svizzere, ma in realtà, al di là di questa ovvietà, siamo stati subito molto coinvolti, in particolare in alcune aree di sostegno all’Ucraina. Ora, il mio ruolo in seno al Consiglio d’Europa richiede che io sottolinei questi valori e lavori per essi».
Stiamo assistendo a una crescente tensione tra sovranismo nazionale e giurisdizione sovranazionale, anche nei confronti della Corte europea dei diritti dell’uomo. Teme una perdita di legittimità per le istituzioni multilaterali europee?
«C’è sempre stata, questa tensione, tra gli Stati e le corti superiori. Non è una novità assoluta, ma è vero che viviamo in un mondo in cui le cose sembrano muoversi in direzioni diverse rispetto a quelle note, e questo non aiuta. Da oltre settant’anni c’è una convergenza sulle regole da applicare. È un grande vantaggio, per il continente europeo, avere una Corte europea dei diritti dell’uomo con una giurisprudenza che si applica più o meno ovunque. È un grande vantaggio. Poi il dibattito esiste, ed è positivo, ma le critiche strumentali alla Corte non lo sono affatto. D’altra parte, fare pressione sui tribunali non equivale a far funzionare le democrazie, anzi, l’opposto. Se non si è soddisfatti di qualcosa, si fa in modo di discuterne politicamente. Si può sempre fare, in sede di comitato dei ministri, portando i problemi, le preoccupazioni, e appunto discutendone. Ma gli attacchi strumentali alla Corte sono ingiustificati».
Negli scorsi giorni si è molto parlato di una lettera aperta di nove Stati membri del Consiglio d’Europa che criticavano la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Erano nove Stati membri dell’Unione europea.
«Sì, nove Paesi, tutti dell’Unione europea, un elemento interessante. È un elemento che va accettato. Ho risposto, a quella lettera, ricordando alcuni principi, e tra questi il fatto che possiamo discutere di tutto, ma senza mai politicizzare la Corte europea dei diritti dell’uomo. Non è l’angolazione giusta dalla quale affrontare eventuali divergenze. Ho quindi delineato questi elementi di principio e, be’, vedremo come proseguirà la discussione. Ma credo che per noi le regole siano chiare, e semplici: dobbiamo proteggere il lavoro della Corte».


Non mancano le voci critiche neppure in Svizzera. Basti pensare a quelle sollevatesi dopo la sentenza sul caso delle Anziane per il clima. Una volta per tutte, perché la Svizzera dovrebbe continuare ad appoggiare la convenzione?
«Attenzione, parliamo di un legame comune molto forte, parliamo di un riconoscimento di valori condivisi. Infatti, la democrazia, lo Stato di diritto e i diritti umani costituiscono l’identità europea e del Consiglio stesso, di cui la Svizzera fa parte da oltre sessant’anni. E in un mondo in cui tutto sembra andare storto, in cui le guerre stanno tornando in auge e in cui l’impunità sembra prevalere, è necessario tornare ai fondamenti. Il Consiglio d’Europa, infatti, non è stato fondato per i periodi in cui le cose vanno bene e sono facili. Quando tutto va bene, non abbiamo bisogno di questo. È quando le cose sono difficili, che si ha bisogno di un riferimento. E questo riferimento, ovvero il Consiglio d’Europa, è stato fondato nel 1949 sulle rovine della Seconda guerra mondiale. Chiaro, ci sono stati periodi più facili e più difficili, per il continente, e ora è un periodo piuttosto complesso, in cui si avvertono i cambiamenti in corso, e allora è proprio per questo che ripeto che è il caso di tornare alle origini e rimanere fedeli ai nostri valori. Sulla questione del clima…».
Sì, la Svizzera si è sentita giudicata e messa all’indice oltre i propri demeriti.
«Non è la prima volta che la Svizzera è stata condannata dalla CEDU. Io lo so bene, essendo stato a lungo consigliere federale. Mi torna in mente quella sentenza relativa alla disuguaglianza tra vedove e vedovi. Era il 2022 e il verdetto della Corte disse che la legislazione svizzera sulle rendite di vedovanza violava il principio di non discriminazione. La questione arrivò sulla mia scrivania, e mi chiesi: che cosa ne facciamo? La risposta era scontata: risolverla, implementando cambiamenti alla nostra legislazione. L’aspetto catalizzante, nel caso legato al clima, è proprio il fatto che riguardasse il clima, un tema quindi molto polarizzante. Ma è stata anche l’occasione per dare vita a un dibattito interno, anche per spiegare come funziona la Svizzera su questi temi. Certo, non mancano le reazioni, a volte molto forti, anche epidermiche, e si accettano in una discussione, finché non diventano strumentali».
Il Consiglio d’Europa lavora sulla promozione della cultura democratica. Ma i social media, la disinformazione e l’intelligenza artificiale stanno cambiando le regole del gioco. L’Europa è pronta ad affrontare queste nuove sfide? Si parla, intanto, sempre a Strasburgo, di una convenzione sulla disinformazione.
«Vede, è esattamente la domanda che ci poniamo con il rinnovo del patto democratico. In effetti, le condizioni per esprimere la democrazia sono cambiate. Guardi gli anni Novanta e li confronti al presente: le condizioni per esprimere la democrazia sono cambiate quasi completamente. Non c’erano i social network, che oggi dominano il dibattito. Non c’era l’intelligenza artificiale, che è molto presente e può essere usata per manipolare le opinioni. La polarizzazione del dibattito è aumentata, con la formazione di bolle che non si parlano più tra loro. È la negazione del dibattito? In realtà, tutto questo significa che le condizioni sono diverse e, come è scontato, non possiamo tornare al vecchio mondo. Quindi che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo pensare a come adattare la democrazia affinché funzioni in questo quadro, che è diventato molto più difficile. Queste sono le ragioni per cui abbiamo lanciato il nuovo patto democratico. Perché la democrazia è un sistema straordinario, ma anche molto fragile, proprio perché non può esistere una democrazia senza una formazione dell’opinione altamente decentralizzata. Quando si tratta di formare un’opinione, non c’è un leader che dica che voteremo così o così. C’è un dibattito e la gente si forma un’opinione».
Ma se si manipola questo aspetto, si manipola l’intera democrazia, non crede?
«Rinnovare il patto democratico non è solo prendere atto di una nuova situazione, ma esaminare cosa fare per avere una democrazia che possa esprimersi correttamente, ad esempio combattendo la disinformazione. Significa combattere le interferenze straniere nei processi elettorali. Per questo, come lei sottolineava, stiamo pensando di lanciare una convenzione contro la disinformazione e le interferenze straniere».
C’è chi sostiene che la democrazia sia stata pensata per un altro secolo. È una provocazione che la interpella? La democrazia è ancora un sistema del futuro o rischia di diventare un’eredità del passato?
«Ma quali sono le alternative? I regimi o le organizzazioni statali che non permettono alle persone di dire ciò che vogliono sono i regimi autoritari o dittatoriali. Con la democrazia abbiamo i sistemi più stabili, perché si votano temi e persone, e poi le cose si evolvono nel tempo, ma senza scossoni. Il fatto è che, oggi, le condizioni per esprimere la democrazia sono più complesse. Non è la prima volta che le cose cambiano. Basti pensare alla comparsa della comunicazione di massa, della stampa, della diffusione capillare della lettura e della scrittura. Tutto ciò ha contribuito a cambiare il dibattito democratico. E ora, questo sta cambiando definitivamente. Ma questo non sarà per forza un problema, se saremo in grado di adattarci».


La fiducia nelle istituzioni è in calo, soprattutto tra i giovani. A suo avviso, è un problema di contenuti, di linguaggio, o di rappresentanza? Cosa manca oggi alla democrazia per essere ascoltata dalle nuove generazioni?
«Il livello di fiducia, o di sostegno, rispetto alle istituzioni, se guardo ai Paesi che ci circondano, sta cambiando, è vero, e per questo dobbiamo prestare attenzione, ma non stiamo parlando di un crollo catastrofico. Il punto è che sono quindici anni, ormai, che viviamo sulla nostra pelle situazioni di crisi. Anche di più, se pensiamo alla crisi finanziaria del 2008, che ha avuto conseguenze importanti in termini di disuguaglianza e che ha preceduto la crisi del debito sovrano europeo, la quale ha, a sua volta, messo sotto pressione i Governi. Abbiamo registrato l’ascesa dei populismi, l’insicurezza dovuta alla guerra in Ucraina già nel 2014, l’aggressione su larga scala nel 2022, ma anche la COVID, la quale ha creato non poche difficoltà. E poi la crisi climatica sempre sullo sfondo, già così presente. Ma tutto ciò crea una sensazione di insicurezza e di instabilità che tende a protrarsi nel tempo. In sostanza, non si rafforza il sostegno alle istituzioni perché la gente si dice: abbiamo le istituzioni, ma che cosa stanno facendo per tutto questo? L’altro elemento è che, in un mondo che si muove sempre più velocemente, che è sempre più complesso e in cui capiamo sempre meno di ciò che accade, si aggiungono troppe informazioni. A questo si aggiunge l’intelligenza artificiale. È possibile che le persone tendano a dire: per me è troppo, mi ritiro. E allora dobbiamo tornare a pensare a lungo termine. Dobbiamo essere chiari sui nostri valori, su ciò che vogliamo realizzare e, soprattutto, dobbiamo creare prospettive per gli individui. Quali prospettive possiamo offrire alle giovani generazioni per il 2035? Quando ero giovane, le prospettive erano molto positive. Tutto andrà bene, è fantastico, ci dicevamo. Oggi, tra la guerra in Europa, la crisi climatica, le pandemie che vanno e vengono, ecco che si crea un sentimento di sfiducia e di distacco».
In alcuni Paesi membri del Consiglio d’Europa la libertà di stampa è minacciata: qual è il margine di intervento reale dell’organizzazione?
«Abbiamo un osservatorio dei media che monitora costantemente ciò che accade. Ma non solo, ora abbiamo una piattaforma di allerta per i giornalisti minacciati o perseguiti. A volte notiamo che in questo o quell’altro Paese crescono i segnali d’allerta, e allora andiamo direttamente nel Paese in questione, proprio per sottolineare il problema e per chiedere correzioni di rotta. Sono azioni concrete per smuovere le cose. In molti Paesi abbiamo uffici stabili che sviluppano progetti sulla diversità dei media e sulla libertà di stampa. Lo ritengo fondamentale in una democrazia che vogliamo funzionante».
Signor Berset, a Strasburgo ha trovato ciò che si aspettava di trovare?
«Sì, direi proprio di sì. Ho trovato un’istituzione assolutamente affascinante, con una storia incredibile. Questa istituzione è stata fondata dopo la Seconda guerra mondiale, e il punto di partenza sapete qual è stato? Un discorso di Winston Churchill. E sapete dove è stato pronunciato questo discorso di Churchill? A Zurigo! All’Università di Zurigo. Era il 19 settembre del 1946. E Churchill lo tenne a Zurigo, che era e resta, come tutta la Svizzera, il cuore geografico dell’Europa. Il Consiglio è stato fondato tre anni dopo e la Svizzera stessa è entrata a farne parte nel 1963. Tornando alla sua domanda, ho trovato un’istituzione straordinaria, ma che ovviamente deve anche adattarsi velocemente a un ambiente in rapida evoluzione».