«Oggi come ieri chi gestisce la carità è il vero padrone della società»

Natale è alle porte e le nostre cassette della posta straripano di richieste di aiuto di questa o quell’associazione benefica. Ognuno dà quel che vuole e può. Certo, fanno notizia le donazioni dei vip miliardari che destinano una parte del loro patrimonio a cause più che nobili. Sono gli epigoni di quei signori che, nei secoli passati, aprivano i loro forzieri e distribuivano un po’ dei loro beni ai poveri. Succedeva anche qui, in Ticino, con modalità e dinamiche in parte cambiate e in parte resistenti al tempo. Ce le siamo fatte spiegare dalla storica di Mendrisio Stefania Bianchi, che le studia da anni.
Stefania Bianchi, da storica lei come legge il fenomeno della beneficenza?
«A Natale puoi .... Un proposito nell’aiutare chi è bisognoso che conserva un’atavica predisposizione al doversi dimostrare solidale con gli altri, soprattutto quando si ha molto. Come in tutti i campi del vivere quotidiano la tendenza è quella di correre a riparare gli effetti degli squilibri socioeconomici, culturali, ambientali, piuttosto che cercare di risolvere a monte le cause dell’iniquità della società, oggi più che mai globalizzata. E per citare una consapevole riflessione che Dario Fo, nel coinvolgente spettacolo Francesco giullare di Dio attribuisce al santo che più di tutti ha mostrato la via per un’uguaglianza morale e materiale, va preso atto che “il fatto di donare è il privilegio che ti procura il possedere”, per cui “la carità è il maggior potere che si può tenere in questo mondo” e, conclude l’autore, “chi gestisce la carità è il vero padrone della società”. Sì, perché l’esercizio della beneficenza, quale espressione di solidarietà, è il prodotto di un benessere acquisito con i suoi chiaroscuri».
Ci parli della beneficenza nei nostri territori nei secoli scorsi.
«Per suggerire qualche spunto sull’argomento consideriamo la documentazione conservata presso l’Archivio storico del Comune di Mendrisio che annovera ricche testimonianze di queste dinamiche in cui si intersecano regole consuetudinarie fondanti sulla vicìnia, ovvero sull’appartenenza al luogo, fattore che implica l’accesso agli usi civici di comunità. E anche l’assistenza passava da questi presupposti ed era organizzata secondo questi parametri, attraverso enti assistenziali e confraternali, quali i Poveri di Cristo o il Luogo Pio della Misericordia, entrambi gestiti amministrativamente da quattro deputati eletti fra i nobili e i borghesi del borgo».


Come funzionava, praticamente?
«I beni dei Poveri di Cristo – che non erano poi tanto poveri dato che l’inventario della sostanza immobiliare comprendeva 27 particelle fra prati, boschi e campi – erano fonte di rendite ridistribuite fra la popolazione del borgo, ma solo a quella iscritta negli estimi prima del 1618; altrimenti, pur pagando le tasse, i forestieri non avevano diritti e neppure “famigli, garzoni, servitori, balie, fantesche”. C’è da chiedersi chi erano i poveri ... E la Pia Misericordia era tale soprattutto per gli enti monastici ed eventualmente, così recita la disposizione del nobile Gaspare della Torre, se si avanzeranno denari dopo aver adempiuto a soddisfare gli altri legati, che questi si dispensino ai poverelli, ma della sola comunità».
Una beneficenza selettiva.
«L’appartenenza alla vicinìa era fondamentale per accedere ai diritti e all’assistenza. La punizione peggiore per chi trasgrediva era il bando, e il caso di Anastasia Provino indagato da Raul Merzario con perizia scientifica e garbata eleganza espositiva, rea di mercimonio incestuoso che denuncia nel corso del processo la sua numerosa clientela maschile, tutta del paesello di Meride, è illuminante. La condanna materiale e morale si trasforma in esclusione, sinonimo di perdita di qualsiasi accesso alle risorse comunali condivise, necessario per il sostentamento di questa donna priva di reddito: qualche frutto, qualche stecco del bosco per fare un po’ di fuoco... È la condanna all’inedia».
C’è poi il sistema dei legati...
«Sì. A sopperire ai vuoti dell’indigenza concorrono le donazioni in vita e “in morte” attraverso i legati testamentari. Il fondo dell’Ospedale della Beata Vergine, prima dell’Ottocento, in sostanza fondo Turconi, che ho catalogato e studiato in più occasioni, ne offre un’ampia panoramica, a cominciare dalle disposizioni testamentarie del conte Alfonso Maria, morto a Parigi nel 1805. Fondatore dell’ospizio, per molti aspetti il Turconi si svela un uomo singolare, figlio dei Lumi di cui condivide gli ideali, consapevole dei suoi privilegi che non di rado “gli vanno stretti”, tanto è vero che ad esempio ripristina per la sua residenza a Castel San Pietro l’uso del toponimo Loverciano, sostituito in precedenza dal più ridondante Castel San Carlo».
Una mente illuminata.
«Certamente. Pur se conte, attraversa le bufere rivoluzionarie e la giovane Repubblica francese lo ringrazia per i suoi meriti di cittadino per la sua solidarietà, emancipante (ad esempio crea pensioni per vecchi), nei confronti dei poveri che, come recita a proposito dell’assistenza gratuita, “lo sono per tutt’altro motivo che per loro colpa”. Povero Turconi! Vedesse che business è oggi la sanità. Al suo esempio faranno seguito molte importanti donazioni, che in taluni casi lasciano intendere la necessità da parte dei testatori, di “congedarsi coscienziosamente”. Anche in tempi precedenti questa preoccupazione ritorna, ma rivela disparità nelle disposizioni, che fanno sorridere e insieme rattristano».
Per esempio?
«Tra i testamenti settecenteschi del fondo notarile a Bellinzona, ad esempio, due testatori predispongono rispettivamente 1000 messe per l’anima e un bisacchino di sale per i bisognosi; altre 1000 messe e 150 lire da distribuirsi, una tantum, ai poveri. Queste contraddizioni, ancora così attuali, sono continue e costanti. E per l’Ottocento ricalcano una sorta di manzoniana e condiscendente benevolenza, quasi compiaciuta, che poco ha a che fare con il concetto di uguaglianza. Le classi sociali restano comunque rigide e ben distinte. Il soccorso a temporanee indigenze durante l’antico regime veniva esercitato anche attraverso il credito, praticato, senza grandi remore, da nobili, borghesi benestanti, enti monastici ed enti morali. Questo assicurava devota riconoscenza che dall’Ottocento si tramuta in deferenza politica».

Insomma, doni per mettere l’anima in pace più che per risolvere le diseguaglianze?
«Diciamo che dietro alle buone intenzioni di magnanimi ricconi e dame di carità, sempre con le dovute eccezioni (si pensi alle operose Giardiniere garibaldine), c’è un ceto contadino che rappresenta i quattro quinti della realtà socioeconomica e che sfama queste famiglie “generose”, promotrici di asili, istituti, strutture assistenziali, quasi fossero inconsapevoli delle fatiche di uomini e donne, analfabeti/e, che vangano, zappano, falciano, mungono, pigiano. E, se non pagano l’affitto puntualmente, sono eterni debitori, vincolati alle masserie. Altrimenti vengono pignorati e/o sfrattati, condizioni che il capolavoro cinematografico di Ermanno Olmi, L’albero degli zoccoli, ha reso con immagini che parlano da sole palesando l’intransigenza di chi possiede la terra, oggi appannaggio dei “palazzinari’’».
Comunque i «ricconi» hanno fatto anche del bene, non crede?
«Pur considerandone le criticità, dobbiamo essere grati a chi ha provveduto e provvede al prossimo, preservando così, mediante disposizioni legatarie vincolanti, anche lacerti di territorio, dove son sorte lodevoli istituzioni, oggi isole nella disordinata urbanizzazione del Mendrisiotto, una cementificazione sul piano diffusa con una continuità che annulla gli antichi nuclei e quasi porta a svanire il concetto di insediamento».


A cosa si riferisce?
«Penso in particolare a due legati. A quello di Agostino Maspoli, anch’egli molto moderno e molto vicino al Turconi nello stabilire le priorità, che riguarda le terre e le masserie di Casvegno. Queste, inalienabili, sono da destinarsi esclusivamente all’erezione di un manicomio; nato e cresciuto sul sedime delle antiche masserie e tra i filari, oggi è il Centro sociopsichiatrico cantonale con tutte le sue strutture di accoglienza. E penso alla donazione di Pietro Chiesa delle proprietà acquistate nel 1912 e poi cedute allo Stato per realizzare una scuola agricola, l’Istituto cantonale di Mezzana, divenuta Centro professionale del verde: una donazione, con grande lungimiranza, cautelata da vincoli. Allo stesso benefattore si deve la prima maternità del borgo, scomparsa con le sue conifere, così come altri beni testimoni di una generosità che si prodiga per la collettività».
Che cosa possiamo imparare da questi esempi tratti dal nostro passato?
«Queste e molte altre cose vanno ricordate e considerate per porsi in primo luogo la domanda in che misura e in che termini siano cambiate talune dinamiche. Certo, nelle società in cui il legislatore ha promosso continue correzioni per migliorare previdenza e assistenza, il ruolo dello Stato ora è fondamentale e operativo. Quanto lo sia oltre ai suoi confini è un altro discorso, così come lo sono le nuove forme e i nuovi protagonisti della “generosità privata”, in una società che si alimenta sull’esistenza dei poveri. Basta leggere i rapporti delle numerose associazioni onlus che giungono fitti nelle bucalettere soprattutto in occasione del Natale».
