Oro, il bene rifugio che sfida il ruolo del dollaro

Ieri sera il prezzo di un’oncia d’oro si attestava a 3.324 dollari. Negli ultimi tre mesi, il valore è cresciuto di circa il 20%, mentre su base annua ha registrato un’impennata del 40%. Un incremento senza precedenti alimentato dalle tensioni geopolitiche, come spiega il Co-CEO di Argor-Heraeus, Robin Kolvenbach: «Il prezzo dell’oro aumenta quando ci sono crisi, quando gli investitori cercano beni rifugio per proteggere il proprio patrimonio. A lungo termine, invece, l’oro mantiene il suo potere d’acquisto. Per questo motivo viene considerato un bene rifugio contro l’inflazione». Per chiarire il concetto Kolvenbach si affida a un esempio pratico: «Negli anni Venti, con 14 once d’oro si poteva acquistare un’automobile. Oggi, con la stessa quantità di metallo prezioso si può comprare un’auto dello stesso valore».
Questa teoria, spesso citata da economisti e storici, si basa sull’osservazione che l’oro, a differenza delle valute cartacee, non subisce l’erosione del valore causata dall’inflazione o dal collasso dei sistemi economici. Con un’oncia d’oro (circa 31 grammi) nell’antica Roma si potevano comperare una toga di qualità o un paio di sandali, oggi, con la medesima quantità di oro si può comprare un completo sartoriale su misura o un paio di scarpe di alta manifattura.
«Questo dimostra che, nel lungo periodo, l’oro si comporta come una copertura naturale contro l’inflazione. Nei periodi di instabilità o shock finanziari, invece, vediamo spesso dei picchi improvvisi nei prezzi, dovuti alla corsa degli investitori verso asset considerati più sicuri».
La ritirata degli USA
Al tradizionale ruolo dell’oro come bene rifugio contro l’inflazione si è aggiunto, negli ultimi mesi, un secondo fenomeno, più sottile ma altrettanto rilevante: la crescente sfiducia nel dollaro come unica e incontrastata moneta di riserva mondiale. Secondo Kolvenbach, una parte degli acquisti di oro da parte delle banche centrali è stata spinta proprio dalla volontà di ridurre la dipendenza dal dollaro, un processo di «dedollarizzazione» dei propri asset.
Diversi fattori hanno contribuito a indebolire l’immagine del dollaro: la crescente ritirata degli Stati Uniti dal commercio globale, le politiche protezionistiche e i colpi inferti da Donald Trump all’ordine economico internazionale nato nel dopoguerra, insieme all’aumento del debito federale americano, hanno lentamente offuscato la percezione del dollaro come pilastro della stabilità finanziaria globale.
Tradizionalmente, il rischio di dazi americani spingeva gli investitori a rifugiarsi nel dollaro, rafforzandolo rispetto alle valute dei Paesi colpiti. Questa volta, però, il meccanismo si è interrotto. Dall’insediamento di Trump, l’indice S&P 500 ha perso il 9,2%, mentre il dollaro si è indebolito dell’8% circa su un paniere di principali valute mondiali. Negli ultimi anni – e in modo ancora più evidente negli ultimi mesi – molte banche centrali hanno iniziato a diversificare le loro riserve, riducendo l’esposizione verso il dollaro e aumentando gli acquisti di oro. La perdita di fiducia nella valuta statunitense come strumento di stabilità ha così accelerato il ritorno all’oro come asset strategico di lungo termine.
In parallelo, va considerato anche il mutamento degli equilibri geopolitici globali. L’emergere di nuove potenze economiche come la Cina e l’India, e l’accelerazione dei conflitti commerciali e strategici, hanno contribuito a un sistema internazionale sempre più multipolare. In questo contesto, l’oro viene percepito non solo come un rifugio contro l’inflazione, ma anche come uno strumento di autonomia monetaria.