Orologi, tra dazi e rallentamento: «L’export è in calo, ma non è crisi»

Come sta il settore orologiero svizzero? In che modo la minaccia dei dazi di Trump si sta ripercuotendo sulle esportazioni? Con quali effetti, poi, sulla produzione ticinese, ripartita su 40 realtà per un totale di circa tremila collaboratori? Difficile dare una riposta univoca. L’industria svizzera dell’orologio è infatti estremamente articolata , con dinamiche molto diverse al suo interno. Il gruppo Swatch, per esempio, ieri ha pubblicato dati semestrali da profondo rosso (vedi articolo a lato). Ma quanto sono rappresentativi dell’intero settore? Per fare il punto, abbiamo interpellato Alessandro Recalcati, copresidente di Atio, l’associazione ticinese industria orologiera.
Dopo anni di crescita
Iniziamo dai dati di giugno, pubblicati ieri dalla Federazione dell’industria orologiera svizzera (FH). Che cosa dicono? Dicono che il valore totale delle esportazioni, a giugno, si è attestato a 2,2 miliardi di franchi, con una flessione del 5,6% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente. «Effettivamente, i risultati non sono stati all’altezza delle aspettative. Tuttavia, se consideriamo l’andamento complessivo del primo semestre, questo risulta in linea con quello del 2024», commenta Recalcati. Nei primi sei mesi dell’anno, le esportazioni sono infatti diminuite solo dello 0,1%, raggiungendo circa 13 miliardi di franchi. Il settore è quindi solido, sottolinea Recalcati: «È vero che il settore non ha mantenuto la stabilità di crescita degli ultimi anni, ma non si può certo parlare di crisi o di fase di declino». Le aspettative restano quindi in linea con i risultati del 2024, segnati da un calo delle esportazioni del 2,8% rispetto al 2023, a 26 miliardi. «Va però ricordato che il 2023 è stato un anno record, con il più alto livello di export nella storia del settore. Il 2024 ha risentito, seppur moderatamente, della contrazione della domanda cinese (secondo mercato mondiale) e di Hong Kong (quinto mercato)», commenta Recalcati. «Va detto, tuttavia, che la crescita registrata in altri mercati – Stati Uniti ed Europa in primis– ha in parte compensato il calo del 30% registrato in Cina durante lo stesso anno».
Cina ma non solo
A livello di mercati, gli Stati Uniti restano il primo sbocco, con 310 milioni di franchi di consegne, come detto, in calo del 17,6% rispetto a giugno 2024. La Cina continentale, invece, mostra una crescita del 6,1%. Tuttavia, le esportazioni verso questo mercato continuano a essere circa il 30% inferiori rispetto ai livelli pre-crisi immobiliare. Al riguardo, Recalcati si dice comunque fiducioso: «La domanda cinese è ancora debole, ma l’economia ha dato alcuni segnali di ripresa».
Sul fronte Stati Uniti, invece, la flessione va ricondotta alla forte instabilità che si è creata con l’annuncio dei dazi di Trump. «La comunicazione ha creato molto trambusto. Ad aprile, per esempio, c’è stata una corsa agli acquisti per evitare le tariffe doganali. Ora, questo effetto si è esaurito, e il rallentamento, a giugno, si è fatto sentire». Sul settore – ricorda l’esperto – rimangono infatti attive tariffe addizionali del 10%, che prima non c’erano e che, molto probabilmente, hanno contribuito al calo della domanda americana. Recalcati evidenzia anche una seconda causa: «In re mesi, il dollaro ha perso quasi il 10% sul franco. Significa che complessivamente sul mercato USA il prodotto svizzero ha subito un rincaro di quasi il 20%. Indubbiamente, questo può aver rallentato l’export».
Il Ticino, tra valore e unità
In definitiva, il settore sta soffrendo? Oppure, il rallentamento va contestualizzato agli anni d’oro? «Se consideriamo il valore delle esportazioni, non si può dire che il settore sia in sofferenza. Arriviamo da un ventennio di crescita continua, interrotto solo da due cali significativi: nel 2008 e durante la pandemia, entrambi poi recuperati. Tuttavia, se guardiamo al numero di pezzi esportati, il quadro cambia completamente: il settore cresce in termini di valore, con i grandi marchi che hanno raggiunto risultati senza precedenti. A soffrire, invece, sono soprattutto i marchi che in passato puntavano sui grandi volumi».
Ed è proprio in questo contesto che entra in gioco il Ticino, storicamente specializzato nelle fasi finali della produzione, come la finitura e l’assemblaggio. «La riduzione dei volumi ha inevitabilmente comportato un calo dell’attività manifatturiera», osserva Recalcati. In altre parole, mentre il prezzo medio degli orologi è aumentato, la fascia compresa tra i 200 e i 500 franchi – un tempo molto significativa – si è fortemente ridotta. «Spesso si tende a sottovalutare questa distinzione, che però è fondamentale: il valore complessivo regge, ma il numero di pezzi prodotti è diminuito». Non sorprende quindi che negli ultimi anni, in Ticino, le aziende abbiano rivisto al ribasso l’organico, ricorrendo più frequentemente al lavoro ridotto.
Il caso Swatch
Particolarmente indicativo per i prodotti di fascia media è il caso di Swatch, l’azienda produttrice di orologi più importante al mondo per numero di articoli immessi sul mercato. Il gruppo ha infatti registrato un forte calo dell’utile semestrale, a causa della debolezza del mercato cinese. I dati sono stati pubblicati ieri dal colosso orologiero: nei primi sei mesi del 2025, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, il fatturato è sceso dell’11%, attestandosi a 3,1 miliardi di franchi. Ancora più marcata la flessione dell’utile netto, crollato dell’88% a 17 milioni di franchi. Si tratta di risultati ben peggiori rispetto alle previsioni degli analisti, che si attendevano un calo delle vendite del 4% e un utile netto attorno ai 100 milioni. Quanto alle cause, i vertici del gruppo – che gestisce 16 marchi e impiega 32.000 persone nel mondo – attribuiscono il rallentamento alla situazione in Cina, Hong Kong e Macao. Nelle altre regioni, invece, il fatturato ha raggiunto i livelli record degli anni 2023 e 2024 (in valuta locale). Il risultato negativo è inoltre legato ad alcune scelte strategiche deliberate dalla direzione, come il mantenimento delle capacità produttive e dei posti di lavoro in Svizzera. «Gli ordini in parte bassi, sia da parte di terzi sia dei marchi del gruppo, hanno portato a un calo delle vendite e a risultati operativi fortemente negativi nel settore della produzione», si legge in una nota della società. Swatch ha infatti deciso di non procedere a licenziamenti di personale qualificato per ridurre i costi, né ha introdotto il lavoro ridotto nelle unità produttive. Una scelta in linea con la posizione del CEO Nick Hayek, che ribadisce spesso l’importanza di non tagliare posti di lavoro nei momenti di crisi, per assicurarsi la manodopera necessaria quando il mercato riprenderà. L’azienda guarda intanto con moderato ottimismo al futuro, intravedendo i primi segnali di ripresa del mercato cinese. La reazione della borsa alle novità è stata nervosa: il titolo al portatore – che rappresenta il riferimento principale, e non l’azione nominativa – ha aperto in calo, per poi virare in positivo e chiudere la sessione con un rialzo del 2,37% a 140,40 franchi. Da inizio anno, però, il titolo ha perso circa 15%, mentre negli ultimi 12 mesi il calo è stato del 22%. Swatch aveva chiuso il 2024 con un forte flessione delle vendite e dei profitti. L’utile netto era diminuito del 75%, scendendo a 219 milioni di franchi.