«Per i rapporti tra Stato e Chiesa è una rivoluzione copernicana»

Ordinario di Diritto e religione all’Università di Modena e Reggio Emilia, Vincenzo Pacillo è stato lungo docente della Facoltà teologica di Lugano. Nel 2009, con Eupress, ha pubblicato il volume Stato e Chiesa cattolica nella Repubblica e Cantone Ticino. Profili giuridici comparati.
Professor Pacillo, come giudica l’introduzione dell’obbligo di denuncia da parte dell’ordinario diocesano cattolico e del presidente del Consiglio sinodale evangelico riformato nei casi di reati commessi da ecclesiastici, o da persone che gravitano attorno alla Chiesa, contro l’integrità fisica e psichica di minori e soggetti più deboli?
«Innanzitutto, va detto che il problema esiste e si è palesato in maniera molto chiara e lampante anche in Ticino. Il diritto nasce dal fatto. Ed è chiaro che, di fronte a una realtà che cambia, c’è anche la necessità di un mutamento normativo. Quanto proposto nel rinnovato articolo 7 della Legge sulla Chiesa cattolica e nell’articolo 5 della Legge sulla Chiesa evangelica riformata nel Cantone Ticino, è una sorta di rivoluzione copernicana. Secondo la norma vigente, la direzione del flusso informativo si muove dallo Stato verso la Chiesa, nel senso che è l’autorità giudiziaria a dover informare il vescovo di quanto succede. In futuro, il flusso informativo sarà opposto: l’ordinario, nell’esercizio delle sue funzioni, dovrà denunciare al Ministero pubblico ciò che apprende in relazione a un reato in materia sessuale che riguardi minori o soggetti vulnerabili. Tra l’altro, con un termine molto preciso e molto chiaro: trenta giorni».
Un vero cambio di paradigma.
«Esattamente. Finora, la finalità della norma era in qualche modo evitare lo scandalo alla comunità. Oggi, la finalità è un’altra: garantire la protezione delle vite e la repressione degli abusi».
Papa Francesco, nel 2019 e nel 2021, ha aggiornato il Codice di Diritto canonico in questa direzione. E nel 2023, con il Motu proprio Vos estis lux mundi, è arrivato ad affermare, in qualche modo, la preminenza del diritto statale su quello canonico, obbligando gli ordinari a segnalare alle autorità civili competenti eventuali casi di abuso se il diritto statale stauisce in tal senso. In qualche modo, la norma ticinese va nella direzione di ciò che la stessa Chiesa ha stabilito in relazione a simili reati.
«Certamente. Fermo restando che quanto stabilito nell’ordinamento canonico non ha conseguenze dirette per lo Stato, le modifiche di legge adesso in discussione in Gran Consiglio mostrano come l’ordinamento canonico e l’ordinamento statale camminino insieme, cerchino cioè di collaborare per favorire, in maniera assoluta, la protezione soprattutto dei minori e delle persone vulnerabili. È un processo corretto, giusto, e benvenuto; una forma di cooperazione indirizzata all’interesse maggiore della comunità».
Sullo sfondo rimane sempre la questione degli ordinamenti giuridici paralleli. Molte persone si chiedono se i chierici debbano obbedire prima alla Chiesa rispetto allo Stato, o viceversa. Si tratta di un falso problema, che però forse vale la pena spiegare.
«Assolutamente. Non solo è un falso problema, ma è una questione che in Ticino è stata chiaramente risolta dall’attribuzione alla Chiesa cattolica e alla Chiesa evangelica riformata della personalità giuridica di diritto pubblico. Un riconoscimento che pone in capo a questi soggetti diritti e doveri. Esistono valori costituzionali intangibili: sono quelli affermati dalla Costituzione ticinese e dalla Costituzione federale. Valori accettati, e di cui la Chiesa cattolica e quella riformata devono farsi garanti. Non c’è, quindi, una questione di doppia obbedienza. Chi opera all’interno di un regime pubblicistico dentro l’ordinamento dello Stato è responsabile di sostenere e difendere i valori e i princìpi fondamentali e intangibili sui quali lo Stato si fonda. Se questi valori si disperdessero, tutta la comunità - non solo quella politica o quella religiosa - crollerebbe».
Si è molto discusso del problema legato al segreto confessionale, un vincolo sacramentale che il sacerdote non può assolutamente spezzare: se questo segreto si scontra con l’interesse pubblico, se cioè il sacerdote o lo stesso vescovo vengono a conoscenza di un reato in confessionale, che cosa succede?
«Diciamo che ci sono due livelli, secondo me, da tenere distinti. Il primo è il sigillo sacramentale. Tutto ciò che viene rivelato durante il sacramento appartiene al nucleo forte e intangibile della libertà religiosa. Ed è un limite per lo Stato. Nel momento in cui lo Stato deve garantire la libertà religiosa, non può andare contro princìpi e valori così radicati. Sovvertirebbe ciò che il diritto divino considera intangibile. È un’operazione che non può essere fatta. Altra cosa è il segreto ministeriale, quanto cioè il sacerdote apprende non nel sacramento della confessione. Su questo, lo Stato sicuramente può dialogare e trovare un’intesa con la Chiesa per giungere a una mediazione che salvaguardi l’interesse della stessa Chiesa a garantire un certo segreto, e insieme l’interesse dello Stato ad assicurare la protezione delle persone e la repressione dei reati. Naturalmente, starà poi alla responsabilità dei singoli ecclesiastici bilanciare le due cose. È del tutto evidente che il sacerdote, di fronte a un determinato discorso, dovrà essere molto chiaro, dovrà stabilire confini netti».
Che cosa intende dire?
«Intendo dire che il segreto confessionale, protetto dal sigillo sacramentale, non può essere toccato. Ma sarà compito del sacerdote spiegare al fedele la gravità del fatto, dirgli che si tratta di un reato, magari subordinare l’assoluzione a una piena assunzione di responsabilità. Diversamente, di fronte a confidenze fuori dal sacramento, la responsabilità ecclesiale e civile - una responsabilità laica, di cittadino - ricadrà interamente sul sacerdote».
Quindi, anche il chierico, in futuro, sarà in qualche modo obbligato a denunciare immediatamente all’ordinario quanto ha saputo.
«Sicuramente. La norma in discussione mi sembra chiara: non c’è un obbligo di denuncia diretta al Ministero pubblico, ma c’è un obbligo di comunicazione all’ordinario da parte di coloro che sottostanno alla sua potestà. E qui bisogna fare attenzione, perché coloro che sottostanno alla potestà di governo dell’ordinario sono tanti: non soltanto i preti, ma anche i catechisti, gli educatori, gli insegnanti di religione. Siamo di fronte a una categoria piuttosto ampia. La legge responsabilizza moltissimo chi coopera con il vescovo, e non unicamente i sacerdoti»

