«Perché il vero potere negli USA è oggi in mano ai “tecnotitani”»

Saggista ed economista, Loretta Napoleoni ha insegnato Etica degli affari alla Judge Business School di Cambridge e pubblicato numerosi libri, tradotti in 18 lingue diverse. Nel suo ultimo lavoro (Tecnocapitalismo. L’ascesa dei nuovi oligarchi e la lotta per il bene comune, edito da Meltemi nella collana Rethink diretta da Adriano Cozzolino e Paolo Ortelli) ha tratteggiato la figura dei «Tecnotitani», gli «oligarchi della rivoluzione digitale», i signori del «feudalesimo 4.0» nel quale tutti siamo immersi. Il Corriere del Ticino l’ha intervistata raggiungendola, al telefono, in Portogallo.
Professoressa Napoleoni, che cosa sta succedendo negli Stati Uniti? Elon Musk ha sancito, utilizzando toni sempre più pesanti, il distacco da Donald Trump. Dall’inauguration day sono trascorsi pochi mesi ma i due sembrano ormai irrimediabilmente distanti l’uno dall’altro. È davvero così? Siamo di fronte alla fine dell’alleanza tra il visionario patron di Tesla e il tycoon, l’artefice della sua elezione?
«Donald Trump ed Elon Musk scontano un evidente scontro di personalità, che da solo, però, non spiega quanto sta accadendo. Musk è soltanto la punta dell’iceberg, sotto il quale c’è molto altro. Ci sono quelli che ho definito i “tecnotitani” e la grande finanza di Wall Street. Che non lasceranno il presidente repubblicano, almeno finché lui farà la loro politica».
Ma chi sono i “tecnotitani”?
«Come ho scritto, sono un ristrettissimo gruppo di individui, gente che conosce e controlla l’innovazione tecnologica e ha creato ricchezze inimmaginabili sfruttandola. I “tecnotitani” sono cresciuti a dismisura grazie ai flussi di denaro creati dal programma di salvataggio seguito al crollo della Lehman Brothers e transitati dalle banche verso Wall Street e da Wall Street alla Silicon Valley, l’industria hi-tech nata con intento oligopolistico. In California si sono trasferiti professionisti, avvocati, commercialisti, l’intera struttura portante di Wall Street e, con loro, anche la cultura finanziaria del Paese. Trump ha voluto avvicinarsi a questi individui perché è loro l’industria chiave degli USA. Chi ha sostenuto gli indici di Borsa sono le big tech, le magnifiche 7 che reggono da sole l’Indice Standard & Poor’s. Il vero potere economico americano risiede qui, e l’avvicinamento di Trump è stata una mossa strategica necessaria per avere sostegno elettorale».
Ma oggi, chi controlla chi? È Trump a dominare la scena o sono i “tecnotitani” a dettarne l’agenda politica?
«Sono sicuramente i “tecnotitani” a controllare Trump, non viceversa. Il presidente ha voluto far vedere al mondo di poter dominare il sistema, ad esempio con i suoi interventi sui Bitcoin, ma il simbolismo dell’insediamento, con i vari CEO in prima fila alla Casa Bianca, è stato fortissimo. Guardiamo quanto accaduto pochi giorni fa: Trump è andato in Arabia Saudita con Musk e Mark Zuckenberg impegnati a fare i loro affari. Sono loro ad avere il potere reale».
Ma perché le big tech sostengono Trump?
«Il mandato del presidente degli Stati Uniti è chiaro: è stato eletto per bloccare la Cina, vicinissima ormai al primato tecnologico americano. È noto come, soprattutto negli ambienti dell’hi-tech, si dica che sull’intelligenza artificiale (IA) la Cina è avanti. Basti soltanto pensare al salto qualitativo compiuto da Deepseek (la società di IA con sede a Hangzhou, nello Zhejiang, che sviluppa modelli linguistici di grandi dimensioni ed è di proprietà dell’hedge fund cinese High-Flyer, ndr). È inevitabile che questo significhi un sorpasso: se ne parla pochissimo, perché le big tech controllano tutto, la tecnologia così come l’informazione. Ma Deepseek ha determinato una flessione degli indici di Borsa, soprattutto per il fatto che la sua tecnologia è open source e tutti se ne possono appropriare».
Una strategia difficile da comprendere.
«Non del tutto. I cinesi l’hanno fatto apposta, proprio per dare modo a chiunque di copiare. Il loro obiettivo è chiarissimo: rompere l’oligopolio americano. A quel punto, ci sarà molta concorrenza, e loro saranno i primi, un passo avanti agli altri. D’altronde, la guerra tecnologica tra Washington e Pechino non è certo iniziata adesso».
Che cosa intende dire?
«Assistiamo alla decadenza degli USA, una decadenza generale. L’Impero romano non è crollato per i costumi, ma per l’economia, e il momento in cui la Cina può sorpassare gli Stati Uniti non è lontano. Già nel suo primo mandato, Trump aveva introdotto la proibizione di vendita dei microchip a Huawei (la multinazionale con sede a Longgang, nello Shenzhen, leader nella produzione di tecnologia per le telecomunicazioni, ndr). L’inizio della contesa risale, quindi, al 2016. Il presidente democratico Joe Biden aveva continuato e rafforzato questa politica, tentando anche di riportare negli Stati Uniti la produzione delle componenti e di toglierla, così, a Taiwan. Trump è andato avanti su questa strada, anche utilizzando i dazi, che sono serviti per confondere un po’ le acque e bloccare ulteriormente la Cina».
Torniamo ai “tecnotitani”, che qualcuno chiama anche “tecno-destra”. Lei condivide questa definizione? Esiste una nuova destra che, nel mondo occidentale, è guidata nelle sue scelte dalle indicazioni delle big tech?
«Non credo che ci troviamo di fronte a un movimento politico com’è stato, ad esempio, il fascismo. Non è un movimento ideologico, ma economico. Penso che ci sia una tecno-destra, ma che non sia universale. Musk ne fa parte, ma Jeff Bezos, il capo di Amazon, no. Ha preferenze politiche diverse; e se ha proibito al Washington Post, di cui è proprietario, di pubblicare articoli critici su Trump in campagna elettorale - lui che è sempre stato anti-Trump - lo ha fatto perché aveva capito che il candidato repubblicano avrebbe vinto, e non se lo voleva inimicare».
Ma Elon Musk è il leader di coloro che fanno parte, che credono nella tecno-destra?
«Musk non ha alcuna leadership semplicemente perché un oligopolio non ha un capo. C’è invece chi fa da ponte tra i “tecnotitani” e chi li ha finanziati, i venture capitalist come Peter Thiel (il co-fondatore di eBay, PayPal e Palantir, ndr), ed è JD Vance, il vice di Trump. Vance è espressione della tecno-destra, basta vedere come si comporta e quello che dice. È lui il punto di contatto tra i “tecnotitani” e la politica».
In questo scenario, l’Europa può recitare un ruolo? E quale?
«L’Europa potrebbe fare moltissimo, ad esempio per migliorare la propria economia. Sta in mezzo, anche geograficamente, alle due superpotenze, e potrebbe quindi prendere dall’uno e dall’altro. Ma c’è un problema politico: l’Europa ha mani e piedi legati dall’Alleanza Atlantica, e la situazione dell’Ucraina ne è uno specchio fedele. Faccio un esempio: L’Europa oggi compra dagli USA il gas naturale, che dev’essere liquefatto. Fu sempre Trump, qualche anno fa, a scontrarsi con la cancelliera tedesca Angela Merkel sull’oleodotto Nord Stream 2. E lo fece per motivi economici non politici, quando la domanda di gas dall’Asia divenne inferiore al previsto».
Non pensa che ci sia anche una valutazione morale, che l’Europa debba cioè porsi il problema di fare affari con un Paese che nega la democrazia?
«Può darsi. Ma mi permetta una provocazione».
Prego.
«La Cina è un Paese autoritario, non c’è dubbio, ma le chiedo: l’autoritarismo cinese è peggiore della progressiva ascesa della destra autoritaria europea che discrimina i cittadini?».