L'intervista

«Perché la crisi spinge il progetto della super-presidenza di Donald Trump»

Fabrizio Tonello, storico degli Stati Uniti, spiega il motivo per cui conflitto tra le élite e il popolo non è una condizione odierna ma è sempre esistito
Donald Trump è tornato alla Casa Bianca il 20 gennaio scorso dopo aver vinto le elezioni presidenziali nel novembre del 2024. ©CRAIG LASSIG
Dario Campione
04.07.2025 19:32

Fabrizio Tonello, storico degli Stati Uniti e ordinario di Scienze politiche all’Università di Padova, ha insegnato e fatto ricerca alla University of Pittsburgh, in Pennsylvania, e alla Columbia University di New York. Il suo ultimo libro, uscito da qualche settimana fa per Laterza, si intitola L’America in 18 quadri. Dalle piantagioni a Silicon Valley. Il Corriere del Ticino lo ha intervistato.

Professor Tonello, vorrei partire da una delle tesi del suo lavoro più recente, ovvero la costante del conflitto tra la democrazia e il potere, tra il popolo e le élite che, secondo lei, negli Stati Uniti non si è mai fermata.
«Le élite sono élite dappertutto, e il popolo è popolo dappertutto. Ma negli Stati Uniti ciò si vede più chiaramente. Già la Costituzione del 1787 era palesemente oligarchica, e criticata per questo dai contemporanei all’atto della sua ratifica, con i cosiddetti antifederalisti che temevano proprio una concentrazione del potere in poche mani. Non solo: la stessa Costituzione accettava la schiavitù di quattro milioni di persone. C’è voluto il crollo dell’assetto istituzionale, 80 anni dopo, in una guerra civile, per eliminarla. Peraltro, gli emendamenti che soppressero la schiavitù non impedirono il ritorno al potere delle élite sudiste per una concatenazione di fattori, tra cui l’assassinio di Abraham Lincoln e l’incapacità dei repubblicani di allora, il partito abolizionista, di mantenere le promesse di emancipazione degli afroamericani. Ma sono serviti altri 100 anni per giungere al 1965, e cioè all’amministrazione di Lindon Johnson e al Civil Rights Act».

Mi sembra però che lei sottolinei come oggi il sistema oligarchico, il regime delle élite, sia comunque più forte. «Il potere del denaro e l’odio razziale - scrive nel suo libro - hanno creato una terrificante versione moderna della società di casta».
«Sì, perché dalla Costituzione del 1787 sono trascorsi due secoli e mezzo in cui molte cose sono accadute. Evidentemente, nel XIX secolo e nella prima metà del XX secolo c’è stata un’espansione della democrazia. Anche se tardi, sono arrivati il voto delle donne, il voto degli afroamericani e il voto dei nativi americani. Istituzioni più partecipative hanno lasciato la propria impronta. E però, tutto questo è avvenuto attraverso un lungo e a tratti sanguinoso conflitto. La Gilded Age (la cosiddetta “Età dell’oro” riferita al periodo che va dal 1870 al 1901, ovvero dalla presidenza di Ulysses Grant a quella di William McKinley, ndr), cioè l’equivalente, alla fine del XIX secolo, dello scatto tecnologico conosciuto in questi ultimi anni, creò un’oligarchia del denaro di dimensioni enormi: inaudite per allora, e ancora oggi rispettabili. Jeff Bezos che si sposa a Venezia è l’equivalente di Andrew Carnegie, John Pierpont Morgan o John Davison Rockefeller, i quali peraltro erano più simpatici, forse solo per il tempo passato o perché costruivano biblioteche invece che mega yacht».

Oggi negli USA, al centro della politica, c’è Donald Trump, che lei definisce «un aspirante dittatore al potere». Un presidente che, però, si è affermato, a novembre, sia nel voto popolare sia nel voto degli Stati. C’è davvero, a suo avviso, una torsione antidemocratica del partito repubblicano e di Trump in particolare?
«Trump, come dice Noam Chomsky, è un sintomo, non l’origine della malattia. L’autoritarismo ha avuto altre fasi negli Stati Uniti, ma questa è più violenta. Se mi chiede il perché, le rispondo che il tardo capitalismo ha in sé una componente particolarmente autoritaria e repressiva. Trump non ha scritto da solo i 200 decreti firmati poche ore dopo il suo insediamento, il 20 gennaio scorso. Quei testi sono frutto del lavoro della Heritage Foundation, che aveva presentato il suo programma nel 2022 in un libro facilmente reperibile su Amazon e intitolato Project 2025. Dopodiché, nulla impedisce a un aspirante dittatore di essere eletto e poi concentrare su di sé i pieni poteri. Da questo punto di vista, Trump si trova in una situazione paradossalmente favorevole: la presidenza degli Stati Uniti è sempre stata un potere forte nel XX secolo. Ma Trump vuole creare una super-presidenza. E la parte folkloristica del suo comportamento non nasconde questo disegno accentratore».

Un disegno che, tuttavia, potrebbe trovare una diga già alla fine del prossimo anno, nelle elezioni di midterm.
«Certo, anche se, da sole, le elezioni non sono un tocco magico. Bisogna inoltre vedere come queste elezioni si svolgono. Negli Stati Uniti, non per decisione di Trump ma per regole pre-esistenti, si disegnano le circoscrizioni elettorali su misura, secondo gli interessi del partito localmente al potere. Non credo che in Svizzera i confini dei cantoni siano modificati ogni 10 anni arbitrariamente».

Non pensa che gli “anticorpi” della società americana bastino a impedire uno slittamento della democrazia dai propri binari?
«Questo lo vedremo. Resta il fatto che, l’attuale, è palesemente una fase di transizione, dalla quale può scaturire come risultato un consolidamento del regime. Ripeto, aspettiamo l’esito del voto di midterm, ma sono numerosissimi i lavori scientifici di politologi che studiano i regimi cosiddetti di “autoritarismo competitivo”. Paesi come la Turchia di Erdogan o l’Ungheria di Orbán, nei quali il risultato delle urne è quasi sempre già scritto e dove, fra un’elezione e l’altra, i candidati dell’opposizione possono finire improvvisamente in carcere nel silenzio dei media, tutti controllati dal Governo o da amici del Governo. Purtroppo, il fatto che si svolgano le elezioni non è più sufficiente come credenziale democratica».

Il quadro che delinea è preoccupante, ma nel libro lei racconta che nel Novecento almeno altri quattro leader hanno avuto pulsioni autoritarie, ad esempio il senatore John McCarthy, senza mai però riuscire a trasformare del tutto il sistema. Che cosa è cambiato nella società americana per fare sì che si affermino questi impulsi autoritari?
«Questa è la domanda da un milione di franchi svizzeri. Io penso che siano cambiate alcune cose. Prima di tutto, c’è un impoverimento delle speranze di ingresso o di mantenimento nella classe media da parte dei lavoratori. Quelle che in Francia chiamano le Trente Glorieuses (i trent’anni dal 1945 al 1975 caratterizzati da un forte sviluppo economico e da una profonda trasformazione economico-sociale, ndr), crearono un benessere diffuso, quantomeno una speranza di benessere e di miglioramento per milioni di americani i quali, però, a partire dal 1975 - stiamo quindi parlando di processi di lungo periodo - hanno vista delusa questa speranza in misura sempre maggiore, soprattutto dopo la presidenza di Ronald Reagan (1980-1988, ndr). A partire dal 1980, c’è stata una biforcazione nelle condizioni sociali che ha molto favorito chi aveva una laurea e molto sfavorito chi non ce l’aveva. I posti di lavoro industriali per produrre magliette o automobili sono più facili da trasferire in Cina o in Vietnam di quelli degli ingegneri che creano il software per tutti i gadget che usiamo quotidianamente. Questa delusione si è accompagnata a una stagnazione economica reale. Giusto un dato: il salario minimo federale orario, a parità di potere d’acquisto, ha toccato il suo massimo nel 1968. Da allora è solo diminuito e adesso, in valuta attuale, è di circa 7,50 dollari, poco più della metà di quello del 1968. Questo ha creato un grandissimo rancore generale nei confronti della classe politica, da cui un demagogo come Trump, capace di sfruttare i sentimenti di delusione e di risentimento, ha tratto vantaggio».

In una situazione globale così complessa e dentro lo scenario che lei ha tratteggiato, che cosa può accadere? E quanto incide sulla situazione attuale la forza sempre maggiore delle Big Tech, dei grandi potentati tecno-capitalistici che hanno peraltro appoggiato la rielezione di Donald Trump nel 2024?
«Penso che tutto questo, come dire, finirà molto male per l’economia, per le istituzioni e per i cittadini americani. Nei primi 100 giorni di amministrazione, con l’aiuto di Elon Musk, il presidente Trump ha semidistrutto il governo federale, mosso guerra alle università, tagliato i fondi alla ricerca e avviato una demenziale politica sanitaria affidandola a un ministro no vax come Robert Kennedy: un cumulo di decisioni insensate che avranno un prezzo molto elevato, non sappiamo se subito, fra sei mesi o fra sei anni. La razionalità è stata messa non nel cassetto, ma seppellita a Fort Knox il 20 gennaio. Non faccio di professione il profeta, quindi non ho idea di come questa crisi possa evolvere, ma sicuramente qualcosa succederà: gli Stati Uniti stanno facendo politiche autodistruttive».

Compresa, forse, l’ultima, contestatissima legge di bilancio, il Big Beatiful Bill che accresce il disavanzo pubblico di 3.300 miliardi. Una manovra che lo stesso Musk ha definito una follia.
«Esattamente. Specchio di una crisi dalla quale si dovrà uscire in qualche modo, anche se stiamo parlando di processi molto lunghi».