L'approfondimento

Peste suina, se del maiale si dovrà buttar via proprio tutto

Il virus si trova a 65 chilometri dal confine sud – Secondo gli esperti potrebbe arrivare in Ticino nel giro di un anno: «Non si potrebbe più andare a caccia, passeggiare con il cane, né raccogliere funghi»
©Keystone
Francesco Pellegrinelli
12.02.2024 06:00

È solo una questione di tempo. Poi saremo confrontati anche noi con la peste suina africana. Attualmente il virus è stato individuato in alcuni cinghiali all’altezza di Pavia. Tempo un anno, massimo due, e la malattia - innocua per gli esseri umani ma letale per i maiali - sarà alle nostre porte.

«Basta guardare la cartina», commenta al CdT il veterinario cantonale, Luca Bacciarini. «Il parco del Ticino è una distesa di boschi che arriva fino al bacino del Verbano. Un’autostrada verde sulla quale i cinghiali si muovono in maniera incontrastata». Secondo gli esperti, la malattia si sposta fino a 5 chilometri al mese. In linea d’aria, tra Chiasso e Pavia ci sono 65 chilometri.

«La situazione è molto più grave di quanto in genere si pensi», osserva dal canto suo Ulrico Feitknecht, allevatore e membro del comitato europeo dei produttori di maiali. Il suo sguardo ci proietta da subito in una dimensione globale: «La Cina, che alleva circa la metà della popolazione mondiale di maiali, due anni fa, a causa del virus, ha soppresso 230 milioni di esemplari. La Danimarca ha eliminato tutti i cinghiali; la Finlandia ha costruito una recinzione lungo il confine con la Russia per contenere l’arrivo dei cinghiali, vettori del virus. L’Italia, invece, è nel pieno dell’emergenza». Un’emergenza che la filiera della carne suina stima, solo in mancato export verso la Cina, in 25 milioni di euro al giorno. Cifre da capogiro, al centro la scorsa settimana della fiera agricola di Verona, spiega Feitknecht. «Il settore è preoccupato, non soltanto per le perdite. Il timore maggiore riguarda la quota di mercato che, in futuro, dovrà essere recuperata».

La peste suina africana (PSA) è una malattia che colpisce i suini domestici e i cinghiali e che non costituisce un pericolo per l’essere umano. Rientra tra le malattie emorragiche, tra cui ritroviamo anche la peste suina classica, conosciuta dai ticinesi perché ha colpito i nostri cinghiali negli anni 1998-1999. I sintomi e lesioni sono pressoché indistinguibili. Sia nei maiali sia nei cinghiali il decorso è normalmente breve e mortale. Generalmente passano meno di 10 giorni tra l’infezione e il decesso dell’animale. Un decorso veloce della malattia e una mortalità molto alta si osservano soprattutto nelle fasi iniziali dell’epidemia nei territori dove la PSA arriva per la prima volta. Con il tempo insorgono forme della malattia con decorso più lento e non mortali. L’animale malato mostra tipicamente inappetenza, una ridotta attività, febbre e sanguinamenti sulla pelle (visibili nel suino domestico ma più difficilmente osservabili nel cinghiale), come pure difficoltà respiratoria, secrezioni dalle narici e dagli occhi, talvolta movimenti scoordinati, vomito e/o diarrea sanguinolenta. Dopo la morte o l’abbattimento dell’animale, la sindrome emorragica può essere molto evidente negli organi interni: la milza e i linfonodi sono ingrossati ed emorragie puntiformi o soffuse possono essere presenti pressoché in tutti gli organi.

L’impatto sulla filiera

In Ticino, però, gli allevamenti di maiali di una certa dimensione si contano sulle dita di una mano. L’impatto complessivo sulla filiera ticinese avrebbe quindi un’altra portata. «Annualmente vengono allevati circa 1.600-1.800 maiali», precisa Bacciarini. «Pari a un allevamento di media dimensione in Lombardia». Parliamo comunque di vari milioni di franchi all’anno e posti di lavoro, aggiunge Feitknecht. «Se un allevamento si ferma, si ferma anche il lavoro del mattatoio e dei salumifici».

Al momento, in Italia, hanno chiuso sette stabilimenti; sono state soppressi circa 40 mila animali e l’operazione è costata più di 20 milioni di euro. «È intervenuta una ditta olandese, specializzata in queste operazioni». E in Ticino siamo pronti? Di fronte al primo contagio, che cosa accadrebbe? «Esiste un piano cantonale che regolarmente viene testato con prove sul terreno», spiega Bacciarini.

Due scenari

In particolare, bisogna distinguere due scenari. Se la malattia viene riscontrata solo sui cinghiali, la zona infetta viene messa sotto sequestro. «Al suo interno, si cercano eventuali animali morti o ammalati, e nel contempo viene messa in atto una serie di misure per ridurre lo spostamento della fauna e quindi il propagarsi della malattia».

L’arrivo del virus in Ticino condizionerebbe anche la vita dei singoli cittadini. «Intere zone di svago o boschive, qualora si trovasse una carcassa di cinghiale infetta, verrebbero chiuse. Non si potrebbe più passeggiare con il cane o raccogliere funghi». Il virus, infatti, è estremamente contagioso, e l’uomo, ancora più del cinghiale, può diventare un vettore di diffusione straordinario. «Chi ha suini domestici in quella zona dovrebbe tenerli in biosicurezza, evitando ogni contatto con i cinghiali». Per questo motivo, la soluzione migliore per i piccoli allevamenti, osserva ancora Bacciarini, potrebbe essere di macellare l’animale, anziché investire in una doppia recinzione.

Se il virus, invece, contagia un allevamento di maiali, paradossalmente la soluzione è più semplice, nella misura in cui la malattia è circoscritta a un determinato luogo: «In questo caso, gli animali vanno abbattuti. Poi si procede con la pulizia e la disinfezione della stalla e della parte esterna».

Uno scenario estremo che mette in guardia tutti gli allevatori ticinesi. «Per un’azienda come la nostra, che fornisce i maialetti da ingrasso, significherebbe ricominciare da zero con il lavoro di selezione genetica degli animali». Una perdita ingente, in termini finanziari e di patrimonio, a cui si sommerebbe anche il problema della perdita di personale, che nel settore scarseggia, osserva Feitknecht.

La caratteristica più distintiva del virus della PSA è la spiccata resistenza nell’ambiente: non viene infatti inattivato dalla putrefazione, né dalla refrigerazione o congelamento delle carni.Questa caratteristica lo rende capace di rimanere infettante per lunghi periodi nelle secrezioni degli animali, nelle carcasse, nelle carni fresche o congelate e in alcuni prodotti derivati (prosciutto crudo, salsicce o salami). La cottura a temperature superiori a 70 °C è invece efficace nell’inattivare il virus. La movimentazione di animali infetti, di prodotti contenenti carne suina contaminata e lo smaltimento illegale di carcasse e rifiuti costituiscono fattori fondamentali nella diffusione della malattia. L’incremento demografico, l’espansione territoriale e alcune modalità di gestione del cinghiale, infatti, consentono la persistenza della malattia nell’ambiente, il contagio tra suini selvatici e suini domestici, l’avanzamento per continuità nella popolazione selvatica, e costituiscono quindi fattori da non trascurare. I suini si possono infettare direttamente, attraverso la via oro-nasale, in seguito a contatto con altri animali infetti che eliminano il virus con la saliva, le urine e le feci oppure indirettamente, attraverso l’ingestione di alimenti contaminati, come carni suine da resti di cucina, rifiuti, carcasse di altri suini infetti, ad esempio grufolando nel terreno contaminato, in cui il virus può persistere per molti mesi.

Svizzera, UE, Cina e USA

Se il contagio toccasse un maiale domestico, poi, entrerebbe in vigore anche l’auto-blocco dell’export di carne suina. Ancora Bacciarini: «La Svizzera e l’UE hanno adottato la regola della regionalizzazione. Pertanto, se la peste suina dovesse arrivare da noi, sarebbe solo il Ticino a non poter esportare carne suina in Europa e nel resto della Svizzera. I Paesi terzi, come Cina e USA, invece non riconoscono questo principio e, pertanto, un solo caso bloccherebbe tutto l’export nazionale».

Guardando al futuro, la grande sfida, quindi, almeno dal punto di vista economico, sarà di tenere il virus fuori dagli allevamenti. «Negli anni Novanta, con la peste suina classica, ci siamo riusciti. Ma quel virus era meno problematico».

L’uomo come vettore

Come detto, anche l’uomo può diventare uno straordinario vettore della malattia. «Possiamo trasportare il virus, soprattutto noi esseri umani, attraverso oggetti contaminati, come derrate alimentari provenienti da suini infetti o anche semplicemente tramite superfici come plastica o carta che hanno avuto contatto con carne infetta», spiega Bacciarini. Non a caso, nelle aree di sosta sulle autostrade italiane, è comparso un cartello in cui si chiede la massima attenzione ai rifiuti di origine animale. «Basta un panino con il salame infetto lasciato in un cestino e la frittata è fatta», aggiunge Feitknecht. «Se arriva un animale selvatico e porta i resti nel bosco, il rischio che il virus entri in contatto con i cinghiali è alto». Stesso discorso, per chi cammina in un bosco dove è morto un cinghiale. «In questo caso, possiamo involontariamente portare il virus sotto le nostre scarpe e diffonderlo altrove anche sui nostri vestiti». Anche durante un’attività come la caccia, il virus può essere trasportato su veicoli e mezzi di trasporto o, addirittura, sui nostri animali domestici.

Ma al di là della salvaguardia delle attività economiche, conclude Bacciarini, anche il benessere dei cinghiali e dei suini è centrale: «Il decorso della malattia, che causa una febbre emorragica, è estremamente doloroso. Evitare questa sofferenza è un’altra priorità».

Ecco come il Cantone si sta preparando

Anche nel nostro Cantone, come nel resto della Svizzera, è attivo un sistema di sorveglianza per rilevare immediatamente la presenza della malattia sul territorio. «A livello preventivo il Cantone ha disposto un aumento della pressione venatoria sul cinghiale», spiega al CdT il responsabile dell’Ufficio caccia e pesca, Tiziano Putelli. «L’obiettivo è diminuire la densità del cinghiale, e quindi del vettore di diffusione, sul territorio». In secondo luogo, il monitoraggio prevede l’esame delle carcasse di cinghiali trovati morti. «Su questi animali viene eseguito il test e, nel caso in cui risultasse positivo, viene attivato un dispositivo che limita lo spostamento della fauna in quella zona». Un’operazione, vista la conformità del territorio ticinese, tutt’altro che facile. «Per questo motivo abbiamo censito i passaggi obbligati, che verrebbero chiusi per limitare lo spostamento dei cinghiali». Centrale poi sarebbe anche la cesura dell’autostrada, in gran parte già cintata, che divide il cantone in due grandi comparti, est e ovest. «In questo caso dovremmo intervenire chiudendo i passaggi esistenti, in particolare i sottopassi e i corsi d’acqua, così da impedire il movimento della fauna da una zona all’altra». La grande sfida, però, sarà la difesa del confine a sud. «Non esiste una recinzione completa. Siamo in contatto con le autorità italiane per capire come comportarci». Uno sforzo che tuttavia deve tenere conto anche dei rischi legati al passaggio del virus attraverso il vettore umano. Rafforzare la ramina, insomma, non garantisce la tenuta della malattia che ormai, in Europa, si è diffusa quasi ovunque.