Politica monetaria, l’economia non vive di soli tassi d’interesse

Analisti e altri protagonisti dei mercati finanziari appaiono spesso animati da due tendenze: tentare di interpretare i riti e le dichiarazioni delle banche centrali e, in parallelo, scommettere sul momento e l’ampiezza delle mosse di politica monetaria di queste istituzioni ormai mitizzate.
Le prime a tagliare i tassi di riferimento sono state la Banca nazionale svizzera (BNS) e la Riksbank svedese, mentre gli istituti centrali dei Paesi maggiori rimangono per ora cauti, promettono ma non si sbilanciano su tempi e modi.
Stime non sempre affidabili
Vi sono molte ragioni che giustificano un atteggiamento di cautela, a prescindere da uno scenario geopolitico incerto che proietta conseguenze anche a livello economico e finanziario. L’inflazione fatica a scendere, pur non considerando i modi più o meno validi e affidabili con cui viene calcolata nei vari Paesi. E le cause sono diverse, a iniziare dall’andamento dei prezzi di molte materie prime.
A parte l’oro, che è comunque un buon indicatore se non altro «psicologico», il cui prezzo è salito di oltre il 12,5% da inizio anno, l’argento segna un +23% circa per lo stesso periodo; il rame, ampiamente utilizzato sia nelle tecnologie tradizionali, sia in quelle avanzate, +16,2%; il petrolio WTI +9,8%; il Brent +7,2%; il gas naturale, sempre più impiegato e su cui pesa il rischio di un’interruzione dei flussi russi, +23,15%; l’alluminio +6,25%; il nichel +7,6%. E la stessa tendenza si registra per svariati beni agricolo-alimentari, con in testa il cacao, +122% da inizio anno e ben +288% sull’arco di tre anni; il caffè +16,25%; la carne +15,5%.
Andamenti simili, con apprezzamenti talvolta ancora più forti, riguardano prodotti e materiali essenziali nelle attività avanzate e in particolare nei processi di transizione tecnologica ed energetica, che si stanno rivelando più complessi e costosi del previsto.
Il ritorno a casa delle imprese
Un altro capitolo riguarda il ridimensionamento della globalizzazione, l’avvio di processi di reshoring e nearshoring, cioè spostamento di attività produttive verso zone vicine e affidabili, ancorché a costo maggiore e soprattutto la creazione dei cosiddetti friendshoring, gruppi di Paesi legati da una comune identità politico-ideologica, con una posizione relativamente chiusa nei confronti dell’esterno e in grado di usare le loro risorse quale arma strategica.
Il caso più significativo è ovviamente quello della Cina, il cui effetto deflattivo globale si va spegnendo sotto i colpi delle guerre commerciali e tecnologiche in corso con gli Stati Uniti e, presto, vista la pressione di Washington, anche con l’Europa. È dei giorni scorsi la decisione della Commissione UE di introdurre dazi del 38% sulle auto elettriche cinesi.
L’ondata di protezionismo, tornata in auge dopo lungo tempo, potrebbe trovare nuova linfa con la probabile vittoria alle presidenziali statunitensi di Donald Trump a novembre. La sua «Agenda 47» prevede tasse del 10% sulle importazioni di ogni bene e servizio, ritorsioni verso chi applica tasse agli Stati Uniti, revoca dello status di «nazione più favorita» alla Cina, forti dazi su molti prodotti, fra cui le auto, comprese quelle europee. Ovviamente queste misure favorirebbero l’industria americana e l’occupazione, aumentando al contempo le entrate fiscali di Washington ma, a livello globale, l’effetto sarebbe invece inflazionistico.
Un Mar Rosso inflattivo
A condizionare il prezzo di beni e servizi, particolarmente in Europa, è poi la logistica. La crisi mediorientale, le vicende del Mar Rosso (il cui attraversamento costa alla nave 400 mila dollari) e del Golfo, dei choke point quali lo Stretto di Hormuz e Bab el-Mandeb, del Golfo di Aden, il ritorno della pirateria, il fortissimo rincaro delle tariffe per il passaggio del Canale di Suez, hanno determinato un forte aumento dei noli, mediamente di oltre il 150%, con valori che hanno talvolta raggiunto il 600%, un allungamento dei tempi di percorrenza con la rotta alternativa del Capo, maggiori consumi di carburante e più costi di sicurezza attiva e passiva per le navi. A ciò si deve aggiungere la necessità di aumentare le unità sulle stesse rotte per assicurare i servizi, la penuria dei container e l’intasamento di molti porti, come quelli del Mediterraneo occidentale, Tangeri, Algeciras e Valencia. Ad aggravare il tutto giunge la tassa europea sulle emissioni marittime, che graverà ancor più sui costi di trasporto per le nostre imprese.
Un mare di dollari e debiti
Infine, ma non certo per importanza, vi è la componente squisitamente finanziaria, con al centro, insieme ai Governi, proprio le banche centrali, presunte custodi dell’ortodossia e dell’indipendenza. La produzione abnorme di dollari da parte della Federal Reserve e il riacquisto continuo della valanga di titoli pubblici per far fronte ai crescenti deficit e debiti della politica hanno svalutato il biglietto verde, ora sostenuto dai tassi d’interesse relativamente alti. Sui titoli pubblici agisce anche la Banca centrale europea, che fortunatamente non può stampare moneta dal nulla, ma su ambedue i versanti dell’Atlantico il debito sale e gli investitori chiedono rendimenti tali da coprire il rischio che corrono. Si tratta di una spirale non troppo virtuosa che giustifica la cautela delle banche centrali, a fronte di distorsioni che, almeno in parte, esse stesse hanno contribuito a creare.