Il sestante

Quando il «Toscanini dei cori» diresse la corale di Roveredo

Gianpiero Raveglia ci racconta le storie di illustri rifugiati italiani nel paese dei Grigioni in tempo di guerra: da Vittore Veneziani a Diego Valeri
Vittore Veneziani al centro della corale mista di Roveredo da lui diretta nel 1944 davanti alla chiesa parrocchiale di Chiasso.
Carlo Silini
06.06.2020 06:00

Come si saranno sentiti nel 1944 gli abitanti di Roveredo, quando Vittore Veneziani, direttore dei cori della Scala di Milano giuntovi come profugo, decise di prendere in mano la corale del villaggio e di portarla in giro a far concerti? E cosa avranno pensato leggendo le parole che un poeta famoso come Diego Valeri dedicava alla Mesolcina? Storie di esilio e di amicizia che ricostruiamo con Gianpiero Raveglia (nella foto sotto).

A settantacinque anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, le ricerche d’archivio grigionesi fanno riemergere dalle nebbie del tempo le vicende di alcuni importanti fuggiaschi della vicina penisola che trovarono asilo per alcuni anni a Roveredo, tra le mura delle strutture guanelliane.

In altre località dei Grigioni di lingua italiana, del resto, erano passati altri esuli assai noti. A Poschiavo, per esempio, Piero Chiara, Giancarlo Vigorelli e Giorgio Scerbanenco. I lunghi giorni di lontananza dall’Italia hanno generato pagine ricche di nostalgia e di umanità. «Solo di te ci resta/ qualche canzone/ cantata di notte/ fra le baracche tetre,/ 0 qualcosa che non sappiamo/e gli altri forse vedono in noi./ Nessuna pietà/ sentiamo che ci abbracci/ Italia, se non quella che ci segue/ di campo in campo/ nelle tue canzoni» scriveva Piero Chiara dal campo disciplinare di Granges-Lens il 24 giugno del 1944.

Mancanza d’abbracci

A settantacinque anni dal sospirato momento in cui gli esuli italiani poterono finalmente tornare a casa, anche noi - curiosamente - sentiamo la carenza di abbracci menzionata dallo scrittore luinese, ma per tutt’altra ragione. Nel segno di questa strana coincidenza degli spiriti celebriamo l’anniversario raccontando la storia di alcuni celebri profughi italiani che sono stati accolti a Roveredo, la borgata grigionese, capoluogo regionale, lambita dalle acque della Moesa che è molto più vicina a Bellinzona, capitale del Ticino, che a Coira, capitale dei Grigioni.

Qui, tra le mura di una casa di cura gestita dalla suore guanelliane, vissero in esilio ospiti illustri come il commediografo Sabatino Lopez e suo figlio Guido, il poeta Diego Valeri e il direttore del coro della Scala di Milano Vittore Veneziani, che durante gli anni di esilio non lasciò in valigia le sue preziose competenze musicali ingegnandosi a creare un coro di grande qualità con la gente del posto.

Il luogo-simbolo

«La vicenda che lega questi uomini di gran talento a Roveredo», ci spiega Gianpiero Raveglia, presidente della Fondazione Archivio a Marca di Mesocco, «ha per teatro anche il complesso dell’ex Collegio Sant’Anna, che fino a quasi vent’anni fa ospitava un collegio gestito dall’Opera Guanelliana. I Guanelliani, del resto, a Roveredo restano proprietari di una casa di cura per anziani, l’Istituto Immacolata, tutt’ora operante, e che in quel periodo aveva ospitato la maggior parte dei profughi italiani. Il complesso del Collegio è composto da una dimora patrizia di tre/quattro piani, da un corpo laterale aggiunto e da una chiesetta edificati nel 1916/1917».

Raveglia ha scartabellato a lungo negli archivi pubblici e privati e nei giornali dell’epoca per ricostruire la questione dei profughi italiani, soprattutto di origine ebraica, che furono ospitati nelle strutture guanelliane del villaggio – il Collegio Sant’Anna, ma soprattutto l’Istituto Immacolata – e di fronte alla mole di materiale raccolto, oggi intende creare un fondo specifico su di loro «con documenti in originale o in fotocopia».

I contatti coi locali

Durante la Seconda Guerra Mondiale queste strutture guanelliane, ma anche alcune case privare, hanno dato asilo in modo durevole a un centinaio di profughi italiani «e diverse famiglie locali in vista (Bonalini, Zendralli, Nicola, Giudicetti, Stanga) hanno creato contatti stretti con alcuni di loro, mantenuti negli anni successivi al rientro in Italia. In merito c’è una fitta corrispondenza e molti documenti interessanti, in parte depositati alla Fondazione Archivio a Marca (provenienti dalla famiglia Nicola). Ma sto cercando di raccogliere testi analoghi anche da altre famiglie». Ma chi erano i personaggi più in vista che passarono da Roveredo?

«Il Toscanini dei cori» tra due componenti della corale di Roveredo.
«Il Toscanini dei cori» tra due componenti della corale di Roveredo.

Vittore Veneziani

«Partirei dal ferrarese Vittore Veneziani (1878- 1958), definito dalla critica ‘il Toscanini dei cori’ che fu direttore dei cori della Scala per più di trent’anni e compositore di musica vocale. Dopo l’emanazione delle leggi razziali nel 1938 era stato destituito e finì a svolgere le sue attività musicali per la comunità ebraica di Milano». In Svizzera ci arrivò dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 giungendo a Roveredo a inizio febbraio del ’44. «Ma già nel marzo dello stesso anno si mise a disposizione della locale Corale Santa Cecilia (fino ad allora solo maschile) creando un coro misto che raggiunse livelli di eccellenza, con concerti prima a Roveredo, poi a Coira e infine in Ticino. Collaborò col maestro Luigi Tosi di Bellinzona e con la locale corale bellinzonese, intraprendendo una tournée nei primi mesi del 1945 in giro per il Ticino (Bellinzona, Lugano, Locarno, ecc.) con l’esecuzione dello «Stabat Mater» di Pergolesi e di altri brani importanti. Tra le soliste c’era il contralto Maria Amadini, che fece carriera alla Scala al fianco di Maria Callas, e il soprano Giuliana Tallone-Bocca». Nel 1954 Veneziani ha ricevuto l’Ambrogino d’oro (riconoscimento attribuito dal comune di Milano ai cittadini particolarmente meritevoli) assieme ad Arturo Toscanini che l’11 maggio del 1946 lo volle con sé per il concerto inaugurale di riapertura della Scala, ricostruita dopo i bombardamenti dell’agosto del 1943».

Sabatino Lopez.
Sabatino Lopez.

Sabatino e Guido Lopez

Poi ci sono i Lopez, padre e figlio. Sabatino Lopez (cognome completo: Lopez Nunes) era nato a Livorno nel 1867. «Era critico teatrale e commediografo, spiega Raveglia, ed era entrato in Svizzera da Brissago il 13 dicembre del 1943. A Roveredo è arrivato il 15 dicembre dello stesso anno. La moglie Sisa era stata separata da lui per alcuni giorni dopo il suo arrivo a Bellinzona, ma aveva potuto ricongiungersi a lui probabilmente grazie all’intervento di notabili locali. Esiste un suo diario. Il figlio Guido, invece, era entrato in Svizzera prima dei genitori, nel settembre 1943, e dopo la guerra è diventato addetto stampa della Mondadori, ha scritto un romanzo sulla sua esperienza di esiliato, ‘Il campo’, insignito del Premio Bagutta opera prima, e un secondo romanzo nel 1953». Ha ricevuto l’Ambrogino d’oro e ha scritto diversi libri storici su Milano. «Il suo archivio personale, con corrispondenza con diversi scrittori, riconosciuto nel 2013 bene culturale d’interesse nazionale, si trova ora all’Archivio Mondadori di Milano. È morto nel 2010».

Diego Valeri.
Diego Valeri.

Diego Valeri

Infine Diego Valeri (1887 - 1976), poeta e scrittore, professore di letteratura francese all’Università di Padova che era scappato dall’Italia perché sulla sua testa pendeva una condanna a trent’anni di carcere. «Ha anche scritto un Taccuino svizzero, pubblicato da Hoepli nel 1946, che conteneva vari bozzetti sul suo esilio svizzero, con i brani ‘Primavera in Val Mesolcina’, ‘Berna’, ‘Coira’, ‘Saluto al Ticino’, ‘Ferrovia del Bernina’, eccetera. A Roveredo ci è stato poco perché è stato presto trasferito al campo d’internamento di Mürren nel Canton Berna dove aveva poi organizzato una sorta di università per gli esuli. Valeri, che negli anni di esilio aveva collaborato con altri rifugiati a diverse riviste ticinesi, ha scritto su Roveredo e sulla sua gente con grande affetto e stima». Lo attestano anche queste parole, tratte dallo scritto ‘Primavera in Val Mesolcina’ che proponiamo integralmente sotto: «Perché il paesaggio, qui, ha una sua anima, dolce e grave; perché ha una sua musica, o una sua parola, che bisognerebbe trarre dall’involucro d’aria e di sole di vastità di silenzio che in se castamente la chiude».

Il fiume Moesa con parte del centro del paese di Roveredo. Foto CdT
Il fiume Moesa con parte del centro del paese di Roveredo. Foto CdT

La Primavera in Mesolcina di Diego Valeri

Il passaggio di Diego Valeri a Roveredo avvenne nell’aprile del 1944. Anche se vi restò solo per qualche settimana, fece in tempo a farsi un’idea molto precisa della regione, come attestano le sue Note di viaggio pubblicate inizialmente su Svizzera Italiana nei numeri 48/50 e 51 . Da lì traiamo questa vivida, nostalgica e insieme grata descrizione della primavera in Mesolcina, che racconta la sua natura selvaggia, pacifica e silente e ricorda la sua ricca storia:

«La Moesa scende a rompicollo dal San Bernardino, raccoglie per via le cascate che irrompono dalle due alte spalliere di monti, e va a gettarsi nel Ticino, poco sopra Bellinzona. Queste onde accarezzeranno dunque le rive di Pallanza, scivoleranno sotto il ponte coperto di Pavia, si confonderanno alle onde confuse del Po, troveranno pace nell’Adriatico, sotto il mio cielo. Domani o posdomani, forse; chissà. Buon viaggio, Moesa, ch’io contemplo dall’antico ponte di Roveredo, sentendomi portar via il cuore dal petto. II cuore va, e gli occhi si girano intorno, a guardare la primavera della vallata, cosi bella, cosi «in pace».

Ma questa è una bellezza che bisognerebbe guardare, appunto, col cuore; come han fatto i suoi poeti, da Conrad Ferdinand Meyer al Fogazzaro e al Federer («Schöne, ernste Mesolcina, du wunderbares Gedicht der Schöpfung»). Perché il paesaggio, qui, ha una sua anima, dolce e grave; perché ha una sua musica, o una sua parola, che bisognerebbe trarre dall’involucro d’aria e di sole di vastità di silenzio che in sé castamente la chiude.

Perché il paesaggio, qui, ha una sua anima, dolce e grave; perché ha una sua musica, o una sua parola, che bisognerebbe trarre dall’involucro d’aria e di sole di vastità di silenzio che in sé castamente la chiude.

Castagni nel primo verde e acque di primo getto, prati stellati di giacinti e pendule boscaglie di roccia, strade che si snodano lente tra sole ed ombra e villaggi deserti nel sole, senza una voce, senza un rumore, ne abbiamo visti anche altrove, e un po’ dappertutto. E meli bianchi-rosati, e sterpi di biancospino, e lattughe che verzicano fresche dalla terra bruna. Ma qui, in questo momento, queste cose belle hanno un loro proprio accento, che vien dal profondo, un’umanità che le fa più vive e patetiche, perfino un po’ dolorose.

Sarà la nostra nostalgia, acuita dalla parlata lombarda della gente; sarà la malinconia di tutte le primavere, e l’atroce tristezza di questa primavera che fiorisce insanguinata sui campi di battaglia e sulle fosse comuni; ma dev’essere anche la sostanza del paesaggio che ci si apre intorno, largo chiaro calmo, eppure intriso di una sua pena segreta di solitudine e come di ricordo.

La storia? Anche la storia, si: il castello di Mesocco con le sue grandi ombre trivulziane; e gli altri quindici castelli dai nomi romanzeschi, Monzel, Castilla, Dordo, Soatz...; la visita di San Carlo Borromeo nel 1583; le streghe bruciate o passate a fil di spada «ai tre pilastri», qui, di Roveredo; la Lega Grigia che annette la Mesolcina italiana all’antica Rezia.

Solo le acque vanno senza memoria e senza pensiero, felici di correre alla loro Celeste trasfigurazione, nell’eterno circolo. Come questa Moesa

E Ugo Foscolo che, fuggendo Milano, gli Austriaci, il disonore della servitù, fa in questa valle la prima tappa del suo esilio errabondo e perpetuo ormai. («Dio preservi dalle armi, dalle insidie, e più assai da’ costumi delle altre nazioni la sacra Confederazione delle Repubbliche svizzere, e particolarmente questo popolo de’ Grigioni; affinché se l’Europa diventasse inabitabile agli uomini incapaci a servire, possano qui almeno trovare la libera quiete». Così scriveva egli in quell’anno 1815; così potremmo scrivere oggi noi stessi, anno 1944).

Un paesaggio è fatto anche di storia, non c’è dubbio. Le strade, i monti, gli alberi, le pietre e i mattoni delle case, ricordano; soffrono, forse, di ricordare. Solo le acque vanno senza memoria e senza pensiero, felici di correre alla loro Celeste trasfigurazione, nell’eterno circolo. Come questa Moesa che, saltando e spumeggiando sotto l’antico ponte, si affretta al Ticino, al Po, al mio mare lontano».

La chiesetta della Regina della pace

La storia della chiesa del complesso dell’ex Collegio Sant’Anna – luogo simbolo della storia dei profughi italiani nella Seconda guerra Mondiale - merita un capitolo a parte. Anzitutto perché si tratta di un edificio votato alla pace in tempo di conflitti. «Particolarmente significative sono a mio modo di vedere le circostanze storiche che hanno portato alla edificazione della chiesetta guanelliana», osserva Gianpiero Raveglia, presidente della Fondazione Archivio a Marca di Mesocco. «Si era infatti in piena Grande Guerra (1914-1918). Come ho potuto accertare da scritti di don Luigi Guanella e da studi guanelliani, la chiesetta fu edificata su esplicito desiderio dello stesso don Guanella, poco prima della sua morte, quale voto alla Madonna e profondo auspicio per la cessazione delle stragi della guerra. La chiesa è infatti dedicata alla Madonna (Regina) della Pace. Nello stesso periodo altre chiese guanelliane furono dedicate alla Madonna della Pace, a Stimianico (a Cernobbio, in provincia di Como) e a Castel San Pietro». Don Guanella, lo ricordiamo per inciso, è stato canonizzato nel 2011.

Un’iscrizione eloquente

«Significativa ed inequivocabile è l’iscrizione in latino che si trova sulla travatura del portale principale della chiesetta: ‘Reginae Pacis vastante bello votum vovimus. A. D. 1916’ [Alla Regina della Pace, mentre la guerra devastava, facemmo un voto. Anno del Signore 1916]. La data del 1916 è quella della posa della prima pietra come risulta pure da un articolo di monsignor Aurelio Bacciarini, divenuto dopo la morte di don Guanella suo successore, che parla delle altre chiese mariane».

Al di là del valore simbolico, come luogo consacrato alla pace, nella sua semplicità l’edificio religioso presenta anche pregi artistici.

Lo stabilimento della Campari progettato dal Perrone a Sesto san Giovanni, integrato nel complesso ridisegnato da Mario Botta.
Lo stabilimento della Campari progettato dal Perrone a Sesto san Giovanni, integrato nel complesso ridisegnato da Mario Botta.

L’arte di Luigi Perrone

«Esattamente. La chiesetta era stata progettata dall’arch. milanese Luigi Perrone di San Martino (1864-1941), su incarico di don Guanella. Perrone godeva di una certa notorietà perché aveva progettato significativi edifici civili, industriali e sacri del Milanese così come a Como, in particolare la nuova sede del Circolo Filologico Milanese in Via Clerici 10, un’istituzione legata a milanesi illustri, come il fondatore del Corriere della Sera Eugenio Torelli Viollier, Carlo Emilio Gadda e altri. Suo anche lo stabilimento industriale della Campari a Sesto San Giovanni (conservato e ora integrato nel progetto del centro direzionale Campari di Mario Botta). Questo stabile, ora Galleria Campari, è importante per la storia dell’architettura lombarda e italiana d’inizio ‘900; è in stile neoromanico (nello spirito eclettico dell’epoca), ma molto funzionale per l’uso produttivo cui era destinato, e rappresenta uno dei primi esempi di uso del cemento armato in Lombardia, da Perrone poi utilizzato anche nell’edificio del Circolo Filologico Milanese».

Da auspicio di pace nella Prima Guerra Mondiale, la chiesetta guanelliana di Roveredo ha avuto un ruolo fortemente simbolico anche durante la Seconda Guerra Mondiale: sotto la sua ala protettrice hanno trovato rifugio molti profughi italiani, accolti con amore dalla suore di Don Luigi Guanella .