Quando Sciascia scriveva sul «Corriere del Ticino»

C’è un articolo sulla visione pessimistica della storia in Manzoni e la presentazione dei comici italiani in Francia, oltre all’introduzione di un nemico di Cagliostro. Ma si parla anche della paura di Virginia Woolf e di un romanzo di von Stroheim, del commissario De Vincenzi, della salute dei letterati, di verità e di morte, della commedia, degli epigrafisti, di Chagall e Boccaccio. E non manca neppure una Lectura Dantis. Di cosa parliamo? Degli articoli scritti da Leonardo Sciascia, per il nostro giornale. Una collaborazione, quella tra il grande scrittore siciliano (1921-1989) e il «Corriere del Ticino» iniziata esattamente cinquant’anni fa e durata per quasi un ventennio. Fu il giornalista palermitano Giovanni Croci, che aveva preso casa sulle rive del Ceresio diventando redattore delle pagine culturali del CdT, a sollecitare nell’estate del 1970 la collaborazione di Sciascia. La proposta venne portata avanti, naturalmente, a nome del direttore di allora, Guido Locarnini. Lo scrittore, che chiamava «noticine» i suoi pezzi, godeva di credito nell’istituto letterario come nel dibattito culturale avendo già pubblicato Le parrocchie di Regalpetra (1956), Gli zii di Sicilia (1958, l’anno prima aveva ottenuto sotto altro titolo il riconoscimento ticinese «Libera Stampa»), Il giorno della civetta (1961), Il Consiglio d’Egitto (1963), L’onorevole e A ciascuno il suo (1966).
Più di un secondo mestiere
Nonostante ci si sia spinti a definire le sue incursioni giornalistiche un «secondo mestiere», va detto che di certo non sfigurano – quanto a stile, selezione degli argomenti, intensità, capacità riflessiva – rispetto al primo. Di fronte al foglio bianco e alla macchina per scrivere, lo Sciascia che di sé voleva si ricordasse «ha contraddetto e si è contraddetto, come a dire che sono stato vivo in mezzo a tante “anime morte”, a tanti che non contraddicevano e non si contraddicevano», è sempre lo stesso potente, efficace prosatore. La grandezza e l’impegno sociale di un intellettuale, di un letterato, di un polemista, di un narratore di prim’ordine non si possono che vedere e misurare, del resto, perfino nei testi spicci, nelle consegne minime e a scadenza, nelle cronachette buttate giù magari di fretta, negli impegni in certo senso «alimentari», nelle righe estemporanee dalla durata non pronosticata. Niente da tralasciare, quindi, o sottostimare. Secondo quanto riferito in seguito dall’uomo di cultura Sergio Grandini, il siciliano domanda consiglio a lui prima di aderire all’invito editoriale. Comunque, a intesa raggiunta – come riepilogato puntualmente una decina d’anni fa da Giuseppe Quatriglio su «CarteVive», periodico della Biblioteca Cantonale di Lugano – il primo articolo di Sciascia per il quotidiano ticinese esce sulla pagina della Cultura in data 12 settembre 1970, preceduto da una breve nota redazionale che annuncia l’inizio della collaborazione. Il brano riguarda le porte del duomo di Orvieto: una querelle del momento. Lo scrittore sviluppa la sua opinione «sulle porte di bronzo realizzate a Roma dallo scultore catanese Emilio Greco, consegnate fin dal 1964 e lasciate accantonate a causa dei dubbi sorti sulla opportunità di inserire un’opera moderna nel contesto di un monumento di stile gotico. Ne era sorta una pretestuosa polemica a sfondo ideologico che non teneva conto dei precedenti inserimenti di manufatti moderni in chiese antiche, e, soprattutto, dell’armonia delle figure fermate nel bronzo da uno scultore votato alla raffigurazione della bellezza». Insomma, è la sentenza, «a me le porte di Greco piacciono».

Il torcoliere
Tre anni dopo, il 13 ottobre 1973, la relazione con il «Corriere del Ticino» avviata originariamente nel segno dell’occasionalità e della saltuarietà ottiene la forma di una rubrica fissa mensile. Si chiama «Il torcoliere» (l’operaio che un tempo era addetto alla tiratura o alla stampa in torchio – ndr) e prende avvio con Una cronaca stendhaliana. Si occuperà poi, tra l’altro, di Scaramuccia, «maschera della Commedia dell’Arte che furoreggiò alla corte di Luigi XIV», del romanzo incompiuto di Brancati Paolo il caldo, del ritorno di Rubè di Giuseppe Antonio Borgese, riscoperto dopo una stagione di oblio. «Vi furono altri interventi dello scrittore, al di fuori della rubrica, ma all’interno delle pagine culturali. Rilevante, l’11 giugno 1975, il suo saggio su La Vucciria, la vasta tela del conterraneo Renato Guttuso sul grande mercato popolare di Palermo. Giudicò il quadro, oggi nella sede del rettorato universitario di Palermo, “una visione, un sogno, un miraggio; un ‘mangiar visuale’ e con effetti di appagamento e delizia...”». Quatriglio nota dunque che è stato «merito di un organo di informazione della Svizzera dare voce, fuori dei confini d’Italia, per circa vent’anni – gli anni della maturità e dei successi dello scrittore italiano – a Leonardo Sciascia, stimolandone la creatività e raccogliendo il suo pensiero».
Gli altri rapporti con il Ticino
Chiaramente il legame tra Sciascia e la Confederazione non si limitò alla cerchia del «Corriere del Ticino». Fu in realtà molto più ampio e variegato, arricchendosi nell’arco di circa trent’anni: viaggi, conferenze, interviste alla televisione e alla radio (pure grazie al sodalizio con Felice Filippini, responsabile culturale della Radio della Svizzera italiana), scambi d’intelligenze e amicizie profonde. A passeggio per le strade di Lugano o di Zurigo, l’intellettuale amava avventurarsi alla ricerca di stampe e libri antichi da riportare a Palermo o nella casa di campagna a Racalmuto. Sui suoi nessi rossocrociati si concentra Renato Martinoni in un volume di qualche anno fa, Troppo poco pazzi: Leonardo Sciascia nella libera e laica svizzera (ed. Olschki) . Troppo poco pazzi, ecco: epiteto proprio da Sciascia indirizzato agli Svizzeri, a indicarne la mancanza dell’elemento folle, eccessivo, irrazionale che riconosceva invece nei suoi siciliani. L’opera non dimentica l’intervista alla Radio svizzera italiana, realizzata da Marco Horat e andata in onda il 23 maggio 1988, nella quale l’autore confessava: «Credo che praticamente ho scritto come una prefazione a tutti i miei libri, che è Le parrocchie di Regalpetra: e poi vengono tutti gli altri come se fossero uno solo». E oltre: «Non mi considero un narratore puro, sono un narratore piuttosto spurio, che prende il suo bene dove lo trova, nella realtà e nei documenti». Anche rileggere quanto ha messo in tanti anni sul «Corriere del Ticino» aiuta a comprenderlo nella sua interezza.