Quel grande e utopico sogno chiamato Woodstock

Questo decennio volge al termine e mentre si affaccia il 2020 possiamo fare il conto degli anniversari già festeggiati e da festeggiare: abbiamo trascorso due lustri celebrando il mezzo secolo degli anni Sessanta, molto più interessanti dei tempi che stiamo vivendo, evidentemente. I cinquant’anni di tutti i dischi dei Beatles e dei Rolling Stones e di tutti quegli altri capolavori che hanno formato l’immaginario collettivo rock, di tutti i film epocali, di tutti i romanzi rivoluzionari, delle morti sconvolgenti di Marilyn e JFK, di Malcolm X e Martin Luther King, della guerra del Vietnam e della prima missione dell’Enterprise per «andare coraggiosamente là, dove nessun uomo era mai stato prima» come hanno poi fatto, ma davvero, Armstrong, Aldrin e Collins.


Per mettere un sigillo su quel decennio ci vollero tre giorni, dedicati a celebrare un sogno. Il sogno di una gioventù che si era scoperta tale, che rivendicava i suoi diritti e che, per la prima volta, si rivoltava contro la generazione precedente e perfino contro i fratelli maggiori. Questi, cresciuti negli anni Cinquanta, erano «Ribelli senza causa», come da pellicola di Nicholas Ray (Gioventù bruciata, da noi), interpretata da un corrucciatissimo James Dean e da uno sperduto Sal Mineo. Agli hippy del decennio successivo non mancavano né cause né ideali da sbandierare, assieme a un’estetica che inorridiva i padri e le madri delle belle famiglie americane con la villetta monofamiliare, la convertibile nel garage e la torta di mele che si raffredda sul davanzale della finestra della veranda sul retro (c’è sempre una veranda sul retro). I capelli lunghi, i vestiti trasandati, una musica assordante, il sesso e la droga come elementi ricreativi e la contestazione a un sistema che spediva «la meglio gioventù» a combattere e a morire in uno staterello del Sud Est asiatico che buona parte dei diciottenni dell’epoca non avrebbe saputo identificare sulla cartina. No, non erano tutti così i figli dell’«Amerika», anzi, i dati ci dicono che per ogni capellone che si dipingeva il simbolo della pace sulla fronte prima di salmodiare «Om» ce n’erano almeno due con un taglio corto sopra alle orecchie, maglioni in tinte pastello che «gettonavano» Pat Boone nel juke box sorseggiando milk shake alla fragola tenendo la mano alla loro Peggy Sue.
Ma gli anticonformisti si aggregavano e dopo la prova generale di Monterey, che nel 1967 ospitò il primo grande festival rock statunitense, si diedero appuntamento dal 15 al 17 agosto a Woodstock, Stato di New York. Che, tanto per incominciare, non si svolse a Woodstock, diversamente da come annunciato: il consiglio comunale della cittadina scelta per rendere omaggio al suo abitante più illustre (Bob Dylan, che ci si era trasferito un paio di anni prima per fuggire dalla pazza folla) oppose un secco no. I possessori dei biglietti che permettevano l’accesso alla manifestazione dovevano stare ben attenti alle cronache. La location cambiò almeno due volte prima di stabilizzarsi su quella reale, a Bethel, nel terreno di un certo Max Yasgur, un cinquantenne che divenne l’idolo di chi ammoniva «non fidarti di nessuno sopra i trent’anni» per aver acconsentito a quei tipacci di calpestare i suoi campi. Un atto di fiducia visto che poco tempo prima un altro signore di mezza età, George Spahn, aveva affittato il suo ranch a una congrega di zazzeruti, la Family di Charles Manson. Ma questa è un’altra storia di cui si è appena celebrato un altro cinquantesimo, anche su queste pagine. Qui serve solo per ricordare che gli assassini di Sharon Tate vennero arrestati il 16 agosto, mentre dall’altra parte degli USA tanti loro coetanei vivevano un momento collettivo che sembrò dare corpo e voce a questi giovani «diversi».

La controcultura era passata dai beat Jack Kerouac, Allen Ginsberg e William Burroughs, al beat delle rock band. E se i gruppi sorti sulla scia dei Beatles e della «british invasion» in fondo non facevano altro che imitare degli imitatori (perché i britannici avevano riportato a casa una musica che negli USA stavano dimenticando), presto si emanciparono arrivando alle lunghe digressioni psichedeliche proposte da Jefferson Airplane e Grateful Dead. Solo due dei grandi nomi chiamati a far parte del cast. Tra gli altri Joe Cocker e Santana, che si guadagnarono una carriera in pochi minuti, Janis Joplin e Jimi Hendrix agli ultimi fuochi, Crosby, Stills, Nash & Young che salivano sul palco per la seconda volta, The Who che cantarono Tommy a un parterre estasiato di mezzo milione di persone. Richie Havens, che gridando Freedom maltrattando una chitarra acustica fece più baccano di tanti colleghi elettrici, come Country Joe McDonald, che fece cantare a quella stessa moltitudine «Un, due tre, perché combattiamo? Non chiedermelo, non me ne frega niente: la prossima fermata è il Vietnam. Cinque, sei, sette, apritevi, cancelli del cielo: non c’è tempo di chiedersi perché. Whoopee, andiamo a morire!».
Woodstock fece scalpore, sì, ma a posteriori, quando ci si rese conto, dagli ingorghi stradali e dai filmati ripresi dagli elicotteri, dell’enormità di quel raduno che divenne definitivamente mitico grazie al cineasta Michael Wadleigh che filmò tutto (tra i suoi assistenti anche un Martin Scorsese ancora semi sconosciuto), confezionò un «rockumentario» di tre ore che fece il giro del mondo regalando, brevemente, l’illusione che avesse ragione Graham Nash quando cantava «We can change the world».
La storia ci ha dimostrato il contrario. Pochi mesi dopo, a un altro festival, ad Altamont, West Coast, un ragazzo, forse intenzionato a sparare a Mick Jagger, moriva accoltellato dagli Hell’s Angels al culmine di quella che oggi si ricorda come una vera e propria «anti Woodstock». La guerra in Vietnam finì, ma molto tempo dopo e non finì bene, per nessuno. Nixon se ne andò, sì, ma non prima di essere stato clamorosamente rieletto a furor di popolo, e a costringerlo alle dimissioni furono giochi di potere alla «House of cards» e non certo il «popolo di Woodstock».
Oggi quegli ex giovanotti ricoperti di fango e pieni di sogni sono ultrasettantenni e, quindi, molti di loro, nel corso del tempo, devono avere cambiato idea. Non Michael Lang, non il «papà» di Woodstock: per lui, anche se non si trattava di solo business, il festival è sempre stato un business che lo ha reso uno dei promoter più ricchi e conosciuti nel mondo. Dopo la Woodstock del 25. e quella del trentennale, però, non è riuscito a realizzare il sogno di celebrare in prima persona il mezzo secolo della sua creatura: troppe «bad vibrations» si sarebbe detto all’epoca, ma la verità è che, oggi, i raduni rock servono solo per accumulare denaro e la musica non ha più quel potere aggregativo. «Avevo un sogno – cantava John Sebastian, spedito sul palco senza neppure essere previsto, solo perché serviva un cantante acustico mentre pioveva – che bel sogno che era». Che bel sogno che era.
I libri su Woodstock...

Per chi volesse approfondire, c’è davvero l’imbarazzo della scelta. In corrispondenza al 50° anniversario del festival dei festival sono stati pubblicati ben sette libri. Il posto d’onore spetta a Michael Lang, il “volto” di tutta la manifestazione, anche se il suo “Woodstock. 3 giorni di pace e musica” (Rizzoli Lizard) non aggiunge nulla a quanto aveva scritto dieci anni fa per il 40°. Meglio “Woodstock. I tre giorni che hanno cambiato il mondo” di Mike Evans e Paul Kingsbury (Hoepli). Questo volume ripercorre in ordine cronologico i fatti dell’epoca, dalla preparazione alla conclusione focalizzandosi sui 31 nomi che si avvicendarono sul palco. Oltre a un apparato fotografico notevolissimo, il valore aggiunto sta nel ricordo di un giovane cineasta, amico del regista Michael Wadleigh, che accettò di sovrintendere al montaggio della pellicola e, per questo, trascorse “confinato su una piattaforma di circa tre metri di larghezza, proprio a destra del palco, appena dietro una pila di amplificatori, tutto concentrato sui musicisti e le loro performance”, perdendosi tutta l’atmosfera di contorno. Quel tale si chiamava, e si chiama, Martin Scorsese. Tra tutti gli altri spicca, infine, “Woodstock ‘69 – Rock revolution” di Ernesto Assante (White Star). Assante propone una vasta selezione di immagini d’epoca, alcune davvero iconiche come l’abbraccio tra Nick e Bobbi Ercoline, collocato sulla copertina del triplo album con la musica del festival. I due sono ancora assieme e vivono a pochi chilometri da Bethel. Almeno per loro non sono stati solo tre giorni.


... e i dischi del cinquantesimo

Peace, love, musica e fango: sono gli ingredienti con cui fu impastato il Festival di Woodstock, mezzo secolo fa. La discografia non poteva restare a guardare. E così dopo l’edizione del trentesimo anniversario (4 CD) e quella del quarantesimo (6 CD) ecco quelle del cinquantesimo. Sì, quelle. Plurale. Partiamo dalla più semplice: tre dischetti. Si tratta di un’antologia che riprende brani che si conoscevano fin dall’inizio, quelli che si trovavano sul triplo LP del 1970 e sul doppio “Woodstock two”. Come al solito, perché questo festival è sempre stato, discograficamente, complicato, mancano alcune cose, anche clamorose: questo triplo, infatti, fa una scelta di campo escludendo completamente Jimi Hendrix, perché la sua performance è già stata pubblicata più volte. Eliminare l’artista simbolo, che chiuse il festival non è una buona idea. Questo box è disponibile anche in vinile, sulla lunghezza di cinque long playing. Poi c’è un box decuplo per il quale si è operata una selezione più ampia delle scalette di tutti gli artisti, compresi quelli di cui pochi si ricordano come i Quill e gli Sweetwater. Infine... Siete pronti? “Woodstock – Back to the Garden – 50th Anniversary Experience”: 38 CD! E un blu – ray. Disponibile dal 2 agosto solo on line alla modica di 624.99 sterline (fate voi la conversione in franchi) e già esaurito in prevendita. Contiene tutte le performance di tutti gli artisti. Tutti: pure Melanie. Ma si sappia che alcune di queste esibizioni complete usciranno prossimamente a parte (quella dei Creedence Clearwater Revival, ad esempio, è già disponibile). Woodstock: tre giorni di pace, amore & musica e mezzo secolo di sfruttamento commerciale.