L'analisi

Quella russa è sempre più un'economia di guerra

Lo storico Andrea Romano spiega il significato delle scelte compiute da Vladimir Putin con la nomina dei ministri del nuovo Governo - Il rafforzamento militare legato alle armi giunte da Pechino e da Pyongyang - Come la propaganda fa leva sul «culto della morte per la patria»
Il presidente russo Vladimir Putin (a destra) con il nuovo ministro della Difesa, l’economista 68.enne Andrei Belusov. © AP/Gavriil Grigorov
Dario Campione
14.05.2024 06:00

Che cosa sta succedendo ai vertici del potere in Russia? Perché Vladimir Putin ha silurato il ministro della Difesa, Serghei Shoigu, rimpiazzandolo con l’economista Andrei Belousov? E quali conseguenze avranno i nuovi assetti politici sulla guerra in atto contro l’Ucraina? Nei regimi autocratici, è sempre difficile cogliere sino in fondo il significato degli avvicendamenti nelle stanze dei bottoni. Nella Mosca sovietica, fiorivano le interpretazioni dei “cremlinologi”, analisti più o meno addentro alle segrete cose degli apparati comunisti. Lo scenario odierno non sembra essere molto diverso. Per capire, bisogna soprattutto saper leggere tra le righe delle fonti ufficiali e ufficiose. Un lavoro, quest’ultimo, che da anni impegna Andrea Romano, associato di Storia contemporanea e Storia russa all’Università di Roma Tor Vergata, uno dei pochi ricercatori italiani ad aver studiato lo stalinismo e la storia del PCUS direttamente negli archivi della capitale russa.

«Il nome di Shoigu e la sua sostituzione fanno sicuramente clamore - dice Romano al Corriere del Ticino - ricordiamo tutti quanto accaduto con la ribellione di Evgenij Prigožin. Ma io partirei da un altro dato, forse più importante: la conferma, non scontata, del primo ministro Michail Mišustin: un messaggio politico molto preciso. Mišustin è un super tecnico, mai particolarmente esposto dal punto di vista politico. Nominato nel gennaio del 2020, ha avuto il merito, agli occhi di Putin, di gestire la pandemia con grande efficienza. La sua conferma, secondo me, fa capire come Putin voglia ribadire la fiducia ai tecnocrati. Mišustin non si è mai molto esposto sul lato propagandistico. Al di là delle battute più scontate, non ha preso posizioni reboanti sulla guerra; si è piuttosto concentrato sulla macchina amministrativa. Questo è un primo elemento. Il secondo elemento, ovviamente, è la sostituzione di Seghei Shoigu con Belousov».

Andrei Belousov, spiega Andrea Romano, non è un militare ma un economista. «È stato a lungo il consigliere economico di Putin per l’industria e la sua nomina ci dice due cose: che l’elemento economico nella strategia bellica del Cremlino è sempre più importante; e che la Russia considera la guerra un investimento di lungo periodo. Attraverso la nomina di Belousov, Putin fa sapere agli ucraini e a noi di non aver alcuna intenzione di interrompere il conflitto rapidamente, anzi: si predispone a gestire lo sforzo bellico in maniera sempre più coordinata e, appunto, con un’economia di guerra».

Ma c’è un terzo elemento che, a detta dello storico livornese, emerge in modo chiaro dal riassetto del potere esecutivo a Mosca: «Il fatto che molte delle figure centrali promosse nel nuovo Governo abbiano un legame privilegiato con la Cina».

Le fonti aperte

Per il suo quinto mandato come presidente, Vladimir Putin ha scelto un Governo che «sancisce, o meglio approfondisce il legame speciale della Russia con la Cina di XI Jinping - dice Romano - Faccio alcuni esempi: le fonti aperte rivelano che Belousov è stato, fin dal 2020, la controparte del responsabile cinese per l’industria e anche colui che, nel gruppo di lavoro del Cremlino, ha ricevuto gli approfondimenti speciali sulla Cina. Il nuovo primo vice primo ministro, Denis Manturov, che ha ricevuto pure una delega speciale all’industria militare, conosce perfettamente il cinese ed è stato a lungo il capodelegazione russo nei colloqui sulla cooperazione in fatto di difesa con Pechino. Altra figura importante è Aleksandr Novak, nominato vice primo ministro con la delega all’Energia, anch’egli in passato titolare di un rapporto privilegiato con i cinesi».

La sintesi di Andrea Romano sulle scelte compiute da Putin è quindi chiara: «Siamo di fronte a una continuità in senso tecnocratico, a una scommessa sul lato economico-industriale dello sforzo bellico e a un consolidamento del legame con la Cina nel prossimo futuro. Putin, insieme con i suoi più stretti collaboratori, scommette non tanto sulla vittoria ma sulla guerra. E proprio l’andamento della guerra determinerà il destino di questo gruppo dirigente. È come se l’attività governativa della Federazione Russa fosse stata ristrutturata, convertita quasi integralmente sugli aspetti economici e industriali del conflitto e sul rapporto con Pechino. D’altronde, vale la pena ripeterlo, il rafforzamento militare russo degli ultimi mesi in Ucraina è dovuto fondamentalmente all’arrivo di armi cinesi e nordcoreane, oltre al sostegno economico decisivo della stessa Cina. La Russia, insomma, si sta spostando sempre più verso Pechino. Quanto tutto ciò faccia il bene del Paese non è chiaro: nei confronti dell’Europa, Mosca è infatti un fratello almeno paritario. Nei confronti della Cina è invece poca cosa, un fratello cadetto».

Slogan e storia

In questa fase così delicata altri punti restano da chiarire. Perché, ad esempio, la guerra - con i suoi moltissimi morti - non incide (almeno così pare) sul consenso verso Putin. E che cosa potrebbe accadere a breve sul fronte.

«Non c’è dubbio che i caduti russi siano ormai tantissimi - dice Andrea Romano - ma purtroppo, grazie alla narrazione della propaganda, tutto ciò non influisce molto. A noi europei può fare impressione, e non lo comprendiamo, ma in Russia c’è, ed è fortissimo, il culto della morte per la patria. Basta guardare che cosa è diventata la celebrazione del 9 maggio: classicamente, nella vicenda sovietica e in quella russa fino alla fine degli anni ’90, la “grande guerra patriottica” aveva liberato l’URSS dall’invasore nazista. Negli ultimi tempi, e quest’anno in particolare, il 9 maggio è invece diventato la celebrazione di una guerra di espansione e di potenza. Uno degli slogan ripetuto di continuo pochi giorni fa è stato “Possiamo rifarlo”. Possiamo cioè vincere, conquistare altri territori. E allora, il culto della morte e la guerra di potenza sono elementi che ottundono la percezione pubblica di questa grande tragedia. Insieme, ovviamente, con l’enormità dei soldi distribuiti alle famiglie dei combattenti e dei caduti».

Sull’immediato futuro, lo storico di Tor Vergata non nasconde la sua preoccupazione. «L’attacco a Nord-Est e il tentativo dei russi di riprendersi Kharkiv costringe Kiev a spostare le proprie difese e a sguarnire inevitabilmente il Donbass. Putin ha fretta: sa che stanno per arrivare gli F-16 e gli altri armamenti garantiti dal finanziamento del Congresso USA. E questo è il punto fondamentale: il ritardo che gli Stati Uniti hanno fatto scontare agli ucraini rischia di avere conseguenze molto gravi».