Quelle macchine da caffè per Starbucks prodotte nel cuore della Svizzera: ma fino a quando?

Thermoplan, azienda che produce macchine da caffè automatiche di alta qualità, fino ad alcuni decenni fa era una piccola, piccolissima realtà nel cuore della Svizzera. A partire dagli anni Novanta, ha cavalcato l’onda della globalizzazione diventando, in particolare, un partner privilegiato di Starbucks. E creando, al contempo, 500 posti di lavoro a Weggis.
Il futuro di questi impieghi, tuttavia, è più che mai a rischio. Colpa, manco a dirlo, dei dazi imposti da Donald Trump ed entrati in vigore lo scorso 7 agosto, per tacere delle misure parallele sui metalli industriali. La politica del tycoon, al momento, sta costando qualcosa come 200 mila franchi a settimana all’azienda. Un’enormità, insomma. «Stiamo sanguinando» ha non a caso dichiarato a Reuters Adrian Steiner, l’amministratore delegato di Thermoplan. «È un business a perdere, per noi, e non abbiamo margini per compensare».
Lo stesso Steiner, già in aprile, quando Trump ha annunciato il primo, provvisorio giro di tariffe, ha iniziato a sondare il terreno per trasferire la produzione in Germania, così da sfruttare dazi più bassi (al 15%). Al contempo, sta valutando il passo dei passi: spostare l’intera azienda negli Stati Uniti.
Starbucks, dal canto suo, forte del suo impegno su scala globale e della sua storia di successo da mesi sta lavorando con i propri fornitori per minimizzare gli effetti negativi. Sempre ad aprile, il colosso del caffè ha accettato la proposta di Thermpolan di coprire la metà dei costi extra legati ai dazi.
L’azienda elvetica, che fra i clienti può vantare McDonald’s e Nestlé, ha saputo crearsi una vera e propria nicchia nonostante l’alto costo del lavoro e l’apprezzamento del franco. La sua dipendenza dagli Stati Uniti, per contro, è netta: i dati rivelano che un franco su sette, a livello di esportazioni, dipende dall’America.
Swissmem, l’associazione dell’industria elvetica, ha spiegato che se le tariffe dovessero rimanere al 39% il settore della meccanica e dell’ingegneria di precisione potrebbe perdere terreno in maniera clamorosa: quattro quinti delle esportazioni verso gli Stati Uniti, che lo scorso anno valevano 10 miliardi di dollari, sparirebbero. Circa un terzo delle aziende consultate da Swissmem, per evitare il peggio, starebbe considerando di spostarsi in territorio dell’Unione Europea. Con tutte le conseguenze del caso, anche in termini di impieghi.
A Weggis, tornando a Thermoplan, la delusione è enorme. Marcel Waldis, a capo delle finanze comunali, ha tuonato: «Gli Stati Uniti sono un Paese eccitante, sotto tutti i punti di vista, ma al momento sono profondamente deluso». Detto che la questione dazi, con da un lato possibili ripensamenti, in qualsiasi senso, da parte di Trump e, dall’altro, la Corte Suprema che dovrà pronunciarsi in maniera definitiva sulla legalità di queste misure, rimane incerta, Steiner sta cercando di correre ai ripari. Sia, appunto, spingendo per iniziare a produrre in Germania sia, a malincuore verrebbe da dire, valutando altresì un trasferimento negli Stati Uniti. Ne andrebbe, inevitabilmente, del concetto e dell’idea del made in Switzerland. Al momento, Thermoplan non si è mossa da Weggis, mentre l’82% dei componenti per la produzione provengono dal nostro Paese. Il discorso, però, è che il 98% delle macchine che escono dalla fabbrica sono destinate al mercato estero, con Starbucks che, da solo, vale il 32% delle vendite. Di cui, beh, la necessità di fare qualcosa.
Steiner è consapevole che, al di là dei tira e molla con le autorità statunitensi, potrebbe non essere sufficiente trasferirsi in Germania e ricollocarsi sul mercato come azienda dell’UE. «Siamo destinati ad andare in America, quantomeno è ciò che vorrebbe Trump, quello è il suo obiettivo». Più facile a dirsi che a farsi: Thermoplan, infatti, dovrebbe costruire da zero nuove catene di approvvigionamento e individuare lavoratori di qualità.