Lugano dimenticata

Quelle «sventurate» che partorivano in collina

Dal fondo inedito di Casa Santa Elisabetta spunta un «melting pot» di ragazze madri
Gli esterni della struttura qualche decennio fa con la «Schwester» che culla un bambino. (Foto Casa Santa Elisabetta)
Romina Borla
06.03.2019 06:00
Padre Aurelio era un frate dal carattere forte che non le mandava di certo a dire

Nei locali in via Borromini 13 si incontrava un’umanità varia per provenienza geografica e sociale, accomunata dal famoso «incidente» e da una famiglia riluttante ad accettarlo. In particolare, dai documenti ingialliti e inediti dei primi decenni d’esistenza dell’istituto spuntano storie di ragazze d’oltreconfine venute nel Cantone per lavoro (donne di servizio, cameriere, ecc.) ma anche di giovani donne ticinesi mandate a Lugano per partorire e ospitate in collina per calmare gli animi, contenere ed attenuare lo «scandalo». Tutte – senza distinzioni di sorta – venivano accolte da padre Aurelio che ogni giorno saliva dal convento di Lugano per fare loro compagnia, dar loro sostegno ed occuparsi delle faccende amministrative. «È stato un pioniere e un visionario», afferma Lisa Ciocco-Cavalleri, la presidente di Casa Santa Elisabetta. «Un uomo che ha saputo cogliere i lamenti di ragazze in difficoltà e viste col sospetto. Impiegava ogni mezzo a disposizione per far funzionare la Casa, a cui teneva moltissimo, sfruttando le sue tante conoscenze. E lo faceva senza preoccuparsi delle critiche che, come potete immaginare, erano feroci».

Tante ragazze venivano dal Nord Italia, soprattutto dalla bergamasca, ma anche da zone del Meridione: la gran maggiornaza restava incinta in Ticino

«Era un frate dal carattere forte che non le mandava di certo a dire», osserva Maria Fazioli-Foletti, storica dell’arte incaricata del riordino del fondo di Casa Santa Elisabetta. «Sapeva essere duro, sia con le ospiti che si dimostravano irriconoscenti o non sapevano adeguarsi alle regole della struttura, sia col mondo esterno che talvolta non capiva». A questo proposito Andrea Porrini, collaboratore scientifico AARDT e responsabile degli archivi, cita una lettera scritta dal religioso ad alcuni sostenitori infastiditi dal fatto che la Casa ospitasse anche straniere. Questo il senso: «È vero, diverse ragazze provengono da oltreconfine ma spesso i padri sono ticinesi e, se mi boicottate, diffondo la notizia senza farmi troppi problemi». La missiva è, come si può dedurre, contenuta nel fondo che – spiega il nostro interlocutore – è per il 70% composto da incarti personali (formulari amministrativi, corrispondenza e fatture). «I documenti – interviene Ciocco-Cavalleri – raccontano le vicende di ragazze che negli anni Cinquanta e Sessanta potevano rimanere nella struttura solo tre mesi dopo la nascita del figlio, quelli più duri per le neomamme. Poi dovevano arrangiarsi a trovare una sistemazione. Le risorse e gli spazi erano infatti quelli che erano».

Una volta c’era una sala parto

Spendiamo qualche parola in più sulla provenienza delle giovani. Come detto arrivavano anche da fuori cantone. «Tante dal Nord Italia», specifica Fazioli-Foletti. «In particolare dal Bergamasco, dove padre Aurelio aveva molte conoscenze. Transitavano però in via Borromini 13 pure calabresi, sarde, siciliane, ecc. La maggioranza rimaneva incinta in Ticino». La struttura ospitava anche donne provenienti dalla Svizzera interna e contadine delle valli ticinesi, con genitori amareggiati che le mandavano a Lugano per partorire, spiega Porrini, «il tempo utile per ingoiare quello che consideravano un gran rospo e inventarsi una storia plausibile da dispensare ai compaesani». Già, perché Casa Santa Elisabetta disponeva di una sala parto, in seguito smantellata (dagli anni Sessanta le ospiti andavano al Civico o alla Clinica Sant’Anna) e si appoggiava ad un medico, il dottor Foletti, che seguiva il travaglio. «Una bella garanzia di sicurezza per sé e il bambino», sottolineano gli intervistati. «L’alternativa era quella di partorire in casa, da sole, in valle». Interviene Ciocco-Cavalleri: «Capitava anche che fosse la famiglia agiata cittadina ad allontanare la “figlia sciagurata incinta” da casa – piazzandola in collina, nei pressi del Tassino – per poi reinserirla nella società come se niente fosse. Dilagava, insomma, un certo perbenismo (che a dire la verità non è scomparso) e la tendenza era quella di nascondere a tutti i costi le verità scomode».

Sfogliando il libro delle ospiti

Con grande curiosità sfogliamo un «Libro delle ospiti» (riferito al periodo 1965-1971) dove sono riportati, in estrema sintesi, i dati biografici essenziali delle ragazze e la loro storia. Molte di loro sono state «sedotte e abbandonate» dal fidanzato una volta scoperto lo stato interessante (il «signore» in questione spesso metteva in dubbio la paternità), altre sono state ingravidate da uomini sposati (Porrini sottolinea come sarebbe interessante capire quante di loro siano state vittime di violenza, un dato impossibile da ricostruire dai documenti rimasti). Alcune sono entrate nella Casa per partorire aggrappate con le unghie e i denti ad una promessa di matrimonio. Leggiamo di ragazze orfane o con una situazione famigliare disagiata alle spalle (non si tratta della maggioranza). Ci colpisce la storia di una giovanissima i cui genitori desideravano che rinunciasse al figlio. «Ma lei non vuole perché ama i bambini» e «prova molta sofferenza» nel pensare di lasciarlo. La scheda termina con una nota di padre Aurelio: «Vedremo cosa deciderà di fare dopo che le ho parlato». Di sicuro delle ospiti della struttura hanno dovuto/voluto rifiutare il neonato «per salvare l’onore» (espressione che ritorna in altre schede del «Libro delle ospiti»). In quei casi (pochi, sostiene Ciocco-Cavalleri) i piccoli finivano presumibilmente coll’essere adottati o affidati a qualcuno.

Dopo i tre mesi

Mentre negli altri casi? Cosa succedeva dopo i famosi tre mesi? «Certe mamme facevano ritorno al nucleo famigliare di origine e continuavano la loro vita insieme al figlio», spiega Fazioli-Foletti. «Si cercava di trovare una soluzione anche per quelle che non avevano parenti o che non potevano contare su di loro». Dai documenti emerge che padre Aurelio le aiutava a trovare un lavoro – in Ticino ma anche in Svizzera interna – e magari pure una famiglia d’appoggio che offrisse loro vitto e alloggio. «Ricordo una lettera dove una ragazza sottolinea come lei e il piccolo si fossero trovati bene nel nucleo d’adozione oltre Gottardo. Una volta prossima alla partenza (ritornava in Italia), la giovane pregava il religioso di mandare un altro bambino in quella famiglia “meravigliosa” che non poteva avere figli ma aveva tanto affetto da donare». Sono tante le missive contenute nel fondo scritte da ragazze madri che sono riuscite a riscattarsi e volevano ringraziare per l’aiuto ricevuto. Di tante altre, com’è naturale, si sono perse le tracce. Ci piace pensare che siano diventate anziane e serene, circondate dall’affetto dei loro cari.

CRONOLOGIA

Gli inizi e la «schwester»

Nel 1945 Casa Santa Elisabetta accoglieva le prime madri in difficoltà. Nel 1947 padre Aurelio da Lavertezzo ha fondato, a Lugano, l’Opera serafica di assistenza del Terz’ordine francescano del canton Ticino che, appunto, ospitava ragazze madri nell’istituto in via Borromini 13. Importante in quegli anni la figura della «Schwester», una suora tuttofare (vedi foto sopra). Le giovani con una famiglia che poteva permetterselo pagavano una sorta di retta per il soggiorno. Alcune, osserva Maria Fazioli-Foletti, venivano assunte da padre Aurelio e lavoravano nella struttura. I «casi più pietosi» – come li definiva il frate – non versavano denaro. La Casa, per sopravvivere, si appoggiava ad una rete di benefattori.

Da terre martoriate

Dai documenti contenuti nel fondo dell’istituto emerge che, negli anni Sessanta e Settanta, la struttura ospitava per brevi periodi anche minorenni provenienti dai Paesi dell’Est fermate per furti e piccoli reati. «Da qui si deduce la mancanza in Ticino di strutture che rispondessero in modo adeguato a bisogni speciali», commenta la ricercatrice. Anche in occasione di calamità (come il terremoto in Irpinia del 1980) o di guerre (i conflitti nei Balcani degli anni Novanta) Casa Santa Elisabetta apriva le porte ad ondate di madri o future madri provenienti da quelle terre martoriate. Persone abbandonate a loro stesse che in tanti casi sono riuscite ad integrarsi nella società ticinese. «Altre si sono ricongiunte alla famiglia nei Paesi di origine o in Paesi terzi, come l’Inghilterra». Negli anni Novanta sono esplosi i casi di violenza domestica. «I bambini sono diventati merce di scambio nei casi di separazione».