Venezia

«Ripetiamo gli stessi errori perché non si studia la storia»

È un fiume in piena la novantenne Liliana Cavani, premiata con il Leone d’Oro alla carriera e presente alla rassegna fuori concorso con «L’ordine del Tempo»
© KEYSTONE (EPA/ETTORE FERRARI)
Max Armani
30.08.2023 22:38

«Il primo premio della mia carriera lo devo alla Mostra del Cinema di Venezia dove avevo presentato un documentario, Petain, processo a Vichy ma ero in vacanza e così non andai a ritirarlo. Ero molto giovane, c’era stato il processo ai collaborazionisti di Vichy e lo avevo fatto con il poco materiale disponibile: molte fotografie e una intervista al Generale Petain, che era talmente sordo che a Parigi per farmi sentire mi ero quasi dovuta sedere sulle sue ginocchia. Era una delle prime cose per la televisione in cui si parlava della Seconda Guerra Mondiale. Avevo fatto quello che avevo potuto, ma non mi sembrava granché».

Liliana Cavani, novant’anni compiuti a gennaio, ha esordito così alla conferenza stampa dedicata a lei e al suo ultimo film, L’ordine del Tempo presentato fuori concorso. Premiata alla 80. Mostra del Cinema con il Leone d’Oro alla carriera, la regista, energica e anticonformista, era un po’ emozionata, consapevole del doppio omaggio che il cinema italiano le ha tributato, non tanto per quel Leone d’Oro cento volte guadagnato nella sua lunga carriera che le ha consegnato Charlotte Rampling e che stringeva con affettuoso orgoglio, quanto per il privilegio di essere riuscita, alla sua età, a trovare il sostegno produttivo e a realizzare un nuovo film. Un exploit non comune nel cinema e forse unico per una regista donna. Ma come ha detto lei stessa, il caso, nella vita l’ha spesso aiutata, così fu all’inizio, quando lei laureata in lettere antiche proprio grazie a quel primo lavoro continuò a raccontare la seconda Guerra Mondiale: «Feci una serie di documentari sul terzo Reich, sulle donne della Resistenza, sulle sopravvissute dei campi di concentramento e per me è stata una rivelazione scoprire tutti quei filmati girati con quella meravigliosa macchinetta cinematografica, finalmente maneggevole, che era la Harryflex, e poi rendermi conto che c’erano ancora dei nazisti in giro, (Lilliana Cavani abbassa la voce «a onor del vero ci sono tutt’ora»), ma fu molto importante per il cinema che feci in seguito».

Il passato fluisce liberamente mentre si lascia intervistare: «Ricordo quei filmati sull’apertura dei Lager e ancora oggi quando sento parlare di negazionisti vorrei legarli ad una seggiola e obbligarli a vedere tutto il materiale su quei fatti, perché si insegna poca Storia e ripetiamo sempre gli stessi errori. Pensiamo che in passato fossero degli incivili e non ci accorgiamo che c’è stato un crescendo e ai nostri giorni si fanno delle guerre sempre più criminali. E di questo a scuola non si parla e così si lascia fuori una gran fetta della nostra umanità» che, aggiungiamo noi, è l’arma più potente di Liliana Cavani regista, ciò che l’ha spinta a dirigere Portiere di Notte, il film che le dette una imperitura fama internazionale. «È un film che avevo dentro, ma che ho capito davvero solo mentre lo stavo girando», ci ha confessato. «Perciò ho cambiato, riscritto molte scene nel corso della lavorazione, perché sentivo che avevo tanto da raccontare nel ruolo della donna. Erano emozioni e sentimenti che avevo udito dalla voce delle vere prigioniere di Auchwitsz e di Dachau, che si vergognavano di essere sopravvissute. Con quel film stavo esplorando l’essere umano, ed era una cosa nuova per me, ma in seguito capii che era così per molta gente, in Francia dove il film uscì subito, in Inghilterra e poi anche in America. Quel film creò stupore, toccava una “tastiera di emozioni” sino ad allora intatta, ed io ero stata fortunata ad avere come protagonisti due attori bravi, adatti al ruolo e che mi avevano detto di sì. Erano perfetti Charlotte Rampling e Dirk Bogarde senza di loro non sarebbe stato lo stesso film». Ma nel suo cuore c’è anche il film su san Francesco «l’unico intellettuale al quale Dante dedica quasi un intero canto, ed io mi fido di Dante», ci ha confessato con un sorriso, «oltre che del libro di fine ‘800 che gli ha dedicato un teologo di una università svizzera e che trovai su una bancarella». Un film importante per Liliana Cavani, che conclude: «Ma ovviamente ogni film ha il suo tempo ed oggi per me è soprattutto L’ordine del Tempo che conta, il mio ultimo lavoro, perché il tempo è il compagno della nostra vita, ma arriva il momento che ci manca. Questo film è ispirato al libro del fisico Carlo Rovelli e parla di noi, di aspirazioni, di inadeguatezze e di amore. Perché il tempo è anche amore».