«Sciolgo gli enigmi nascosti dietro le parole»

«Le mie ricerche sulla lingua spesso si concentrano su parole ed espressioni che sfuggono agli studiosi che lavorano sui libri. Io ho lavorato soprattutto sulla gente». Ottavio Lurati non potrebbe sintetizzare meglio il senso del suo impegno di ricercatore e, quindi, anche del suo ultimo libro, La pulce nell’orecchio, da poco pubblicato per le edizioni Fontana. Un viaggio alle origini, spesso dimenticate, delle parole d’uso corrente in italiano e in dialetto. In Ticino e fuori dal Ticino. Con non poche sorprese. Ne parliamo con lui.
Ottavio Lurati, che cos’è la pulce nell’orecchio che dà il titolo al suo saggio?
«È il tormento, il tormentone: quello che ti assilla come enigma. Io ho cercato di sciogliere qualche enigma».
In particolare, enigmi e modi di dire locali?
«Ma non solo. Esamino anche espressioni come Arbeit macht frei, resilienza, frantumazione dell’identità... È un libro che bada all’uomo, alla donna e ai giovani».
Si parla anche di «politicamente corretto»?
«Sì, nella parte che riguarda i possibili modi di dire futuri. Politicamente corretto, secondo me sta già declinando. Al contrario di resilienza, un termine assunto addirittura dal Consiglio federale. Va anzitutto detto che stress e resilienza vanno insieme. Lo stress è infatti la sollecitazione delle travature e delle putrelle in un edificio. È un concetto degli ingegneri, che poi è stato applicato a noi. Idem per resilienza, che è la resistenza all’urto che un corpo edilizio oppone quando viene urtato o sollecitato in un qualche modo. Per descrivere la situazione di noi donne e uomini di questo secolo si usano quindi due concetti legati all’estrema sollecitazione del cemento e del ferro. Mi sembra molto significativo. Si è dovuto ricorrere a questi elementi di forzatura per indicare la situazione in cui molti di noi si trovano».

C’è anche un po’ di dialetto. Vedo, tra le altre, la parola barlafüs.
«Sì, in realtà in origine è una parola sessista che discriminava la donna. Perché – questo il senso del termine – era ritenuta capace unicamente di prillare il fuso, cioè di far lana. Barlafüs esprime quindi il disprezzo dei soldati e dei cavalieri verso la donna che non portava le armi e sapeva solo lavorare la lana. Per secoli ha avuto questa accezione, che poi si è trasferita anche sull’uomo, inteso come maschio».
Quindi, il sessismo ha lasciato traccia nella nostra lingua parlata, senza che ce ne rendiamo conto.
«Esatto. Un caso simile a barlafüs è l’espressione gergale la me bacàna, mia moglie. Da intendersi però come donna che non vale niente, che mette ordine ma è inconsistente. Anche in questo caso il termine bacàna viene dal latino baculum, il bastone, il sostegno su cui metti la lana... E si torna allo stesso concetto di barlafüs. Ma anche all’idea di bastone del comando, quindi all’idea della donna che ti comanda a bacchetta».
Parole gergali, quindi.
«Certo. E un altro esempio di gergo è gh’è ciapaa dent l cinq, come annunciavano i boscaioli valtellinesi quando vedevano le fiamme iniziare ad aggredire il bosco. Questo perché cinque era il numero del fuoco nella cabala».
Quali sono le parole d’uso corrente che hanno l’origine più lontana?
«C’è, ad esempio, ferragosto, un termine che non tratto in questo libro ma nel mio precedente e che viene nientemeno che dai romani. Il termine fa riferimento al diritto che impone ai romani di fare le ferie d’agosto, i primi giorni del mese. Poi, col sindacalismo lombardo e piemontese, la feria si sposta il 15 di agosto, giorno dell’Assunta. È una conquista dei muratori che quando mettevano a tetto una costruzione ci mettevano sopra un ramo o un alberello. Facevano festa, e il padrone pagava da bere e da mangiare a tutti. Credo di averlo visto fare ancora negli anni scorsi. È una delle rare tradizioni giunte fino a noi dal mondo romano».


Da sempre si dice «fare o avere le corna» per indicare il tradimento sessuale. Un’espressione di cui si occupa pure lei.
«Sì, e che troviamo già ai tempi dei romani oltre che diffusa nel mondo celtico. Nel libro spiego che esistono tre ipotesi sulla sua origine. Secondo alcuni, il modo di dire ricorda una narrazione diffusa nel Medioevo: il mago Virgilio avrebbe preparato a Roma una statua di bronzo che staccava con un morso il dito alle donne infedeli che introducevano la mano nella sua bocca; l’infedeltà della donna era poi denunciata dal fatto che al marito spuntava un corno in fronte. Una seconda ipotesi riconduce il modo di dire alla credenza astrologica secondo cui i nati sotto il segno del capricorno sarebbero destinati ad essere traditi nella vita coniugale. L’interpretazione più diffusa tuttavia, e oggi generalmente accettata, stabilisce una connessione con la castrazione del gallo. La locuzione deriverebbe quindi dall’antica abitudine di tagliare gli speroni al gallo dopo averlo castrato e di innestarglieli nella cresta. Là gli speroni, così dicevano, potevano crescere e svilupparsi in modo notevole assumendo l’aspetto di vere e proprie corna. Per scherzo, il marito ingannato sarebbe stato assimilato a un cappone. C’è dietro anche una visione giuridica legata alla sanzione da dare al marito che si è fatto lenone della moglie. Come c’è uno sfondo giuridico alla parola trombare».
Cioè?
«La cosiddetta trombana è una donna che veniva fatta sfilare con un cappello apposito che segna il suo essere propensa alle corna davanti a un araldo del Comune che suona la tromba. È quindi legato alla figura dell’araldo che suonava la tromba per attirare l’attenzione della gente. Qui la lingua ti fa vedere come certi fatti sono stati recepiti da ampie fasce della popolazione e durano, senza che ce ne rendiamo conto, fino ad oggi. Come linguista non studio tanto la lingua bellissima di un poeta, ma tento di capire perché esistono espressioni possedute da moltissime persone. Dobbiamo studiare anche le fasce che non hanno scritto poesie. Ci aiuta a capire come è stata recepita la realtà».

Di quali parole ha proposto letture inedite?
«Ho inquadrato per esempio, la parola magütt, in uso anche nelle zone della Begamasca. Si tratta di un residuato dei testi dei cantori medievali dell’Italia settentrionale, della Toscana e di altre zone. In particolare Margutte è un personaggio inventato da Luigi Pulci per il suo poema Morgante (si tratta di un semigigante astuto e maligno dalle membra «strane, orride e brutte» che, presentatosi al gigante Morgante vantandosi di tutte le sue bravure, viene assunto da lui come scudiero, ndr). Il magütt è quindi il manovale che preparava la calce e la portava sui ponteggi ai muratori che, loro, avevano la prerogativa di saper tirar su il muro».
Vedo l’espressione «pagare la riconoscenza»: cosa significa?
«Significa la situazione del tale che arriva nell’Italia del Sud e trova un posto come manovale agricolo e ne fa venire altri. È praticamente una forma di pizzo. Fa venire altri lavoratori, che so, dalla Tunisia o dal Marocco, ma quelli devono “pagare la riconoscenza”, cioè gli devono un obolo mensile perché lui gli ha trovato un posto di lavoro».
Ci sono espressioni «nostre» che si sono diffuse altrove?
«C’è l’espressione mettere alla berlina, essere esposto alla berlina, che è una cosa dei luganesi e dei comaschi del Duecento che poi penetrerà nella lingua italiana nei secoli a seguire. La berlina è una parola nostra con il passaggio dalla “g” alla “b’”. Un tempo, infatti, era la gerlina, la piccola gerla. La berlina, infatti, era fatta a stecche e se ti macchiavi di particolari reati, ti mettevano dentro questa gabbia, questa gerla. L’espressione resiste bene anche oggi perché si parla di berlina mediatica. A livello svizzero, segnalo invece che opinione pubblica è una acquisizione della scuola politica ginevrina, così come lo slogan “libera Chiesa in libero Stato” di Cavour, viene dalla madre di Cavour che era una vodese».
Quali sono i termini recenti che la colpiscono di più?
«Ce ne sono diversi. Per esempio: andiamo verso le primavere silenziose, cioè prive del cinguettio degli uccelli, dal 1980. O i non luoghi, dal 1992, per indicare i luoghi che cancellano le identità, come le aree di servizio e certi magazzini ampi in cui ci si trova smarriti. L’idea di smantellamento del territorio identitario comincia ad apparire da noi già nel 1962, abbastanza tardi per la verità».


Quali i fenomeni politici che sono finiti sotto la sua lente?
«Ho messo in risalto soprattutto la cosiddetta nuova guerra fredda che sussiste tra stati Uniti e Cina (mentre un tempo era l’Unione Sovietica). Mi sono soffermato anche sul prestito etico, in cui parecchi svizzeri sono stati attivi, che permette a piccoli imprenditori, con tante idee e pochi mezzi, di giocare le loro carte. C’è un capitolo sul tema uomo-territorio in cui tratto queste cose».
All’inizio della nostra conversazione lei citava una frase che è passata tragicamente alla storia perché campeggiava sopra il cancello di Auschwitz: Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi. Qual è la sua interpretazione?
«È uno sprezzo che circola tra i nazisti, i capi della soluzione finale. Molti di loro avevano fatto il liceo e frequentato le università. In Germania si usava dire correntemente Kultur macht frei, la cultura rende liberi. Quindi, per sprezzo, fu sostituito a Kultur il termine Arbeit. Questa, almeno, è la mia interpretazione».
Il libro parla anche del linguaggio giovanile.
«Esatto. Penso ad esempio alle vsco girl, un modo inventato di recente, ne trovo traccia nel 2019, dalle ragazze lombarde e ticinesi che lo utilizzano per indicare le ragazze innovative, preoccupate per la natura, per l’ecologia amanti della semplicità. A mia conoscenza è il primo spunto linguistico in cui le ragazze non sono a rimorchio dei maschi. Un tempo molti gruppi femminili nascevano nelle scuole e fuori sulla scia di movimenti maschili. Qui nasce per la prima volta un elemento originale femminile. Anche loro si salutano con un’altra espressione giovanile nota, quella di bella zio».
Da dove viene questo «zio»?
«È un influsso meridionale, zio Antonio...».
È sempre possibile sciogliere gli enigmi delle parole, studiandole?
«Non sempre. Per esempio, ho cercato di venire a capo dell’espressione a iosa. Ci ho lavorato per settimane ma non ci sono riuscito».
