Parole ed espressioni

Se il «bel violoncello» è un «bel sedere»

Un mondo di sorprese linguistiche nell’ultimo saggio di Ottavio Lurati
La celebre opera di Man Ray: Le violon d’Ingres. (Foto Keystone/© ProLitteris)
Carlo Silini
25.01.2019 22:31

Di solito la lingua italiana è una passione di nicchia, a volte perfino morbosa. Tra i suoi misteri si tuffa a pesce lo studente universitario o il docente delle Medie o del Liceo. Meno il «lettore comune», se mai ne esistesse davvero uno. Eppure, ci sono saggi divulgativi di linguistica anche tra gli scaffali dei comuni mortali. Merita la creazione di un piccolo spazio nelle scansie anche il volume di Ottavio Lurati Tra la gente. Parole “giovani” fascino di luoghi e famiglie echi biblici nel nostro parlar corrente, SalvioniEdizioni, che, evitando toni cattedratici ed eccessivi rilievi tecnici, sceglie di raccontare le parole divertendosi.

Quando prendi in mano il libro, all’inizio ti imbatti in alcune battute gergali dei giovani (prese dall’autore qua e là, soprattutto in treno, a quanto pare) che non conoscevi e - per suono o per concetto - muovono al riso. Ad esempio «non ho più banane» (oggi sono sfinito, senza forze) o «giamàiro» (contrazione di ‘già mi hai rotto’). Oppure l’espressione, quasi poetica, «ha un bel violoncello» che non si riferisce allo strumento musicale, ma al bel sedere di una ragazza. L’autore si diverte però a saltare dal sacro al profano con una certa disinvoltura. Ecco, per dire, che dopo lo slang giovanile ci introduce alla piccola-grande storia dell’antica arte della pietra alle nostre latitudini spiegandoci l’origine degli Antelami e dei Magistri Comacini. «In Antelami – osserva - siamo di fronte alla variante “esterna” (...) del nome di Intelvi, che come noto indica tuttora una valle del Comasco.

Regali svizzeri all’Italia

Poi accenna all’esistenza di alcuni termini che ormai sono sentiti come italianissimi, «ma che pure in origine erano svizzeri: così “referendum”, “commissione paritetica” (...) “Disoccupazione frizionale”, “strade residenziali” (...), “piste ciclabili”».

Che sorpresa scoprire che fra queste va annoverata la parola «mucca». Pare infatti che nel Settecento l’Illuminismo toscano ricostruisse quasi per intero il proprio patrimonio bovino «acquistando le svittesi Mugg (‘bestia bovina giovane’) sul mercato di Lugano; gli allevatori toscani le chiameranno “mucche” (nulla da fare con muggire)».

Lurati dà il meglio di sé quando cerca le origini dei nomi di luogo di casa nostra. Dove per «nostra» bisogna intendere la Svizzera in generale e il Ticino in particolare. Così, ad esempio, per Cervino propone un etimo alternativo: «Coloro che abitavano ai suoi piedi, non lo chiamarono certo così dai cervi, ma piuttosto dal tema serv-, cerb- nel significato di ‘parete rocciosa, costone scosceso, picco franoso’. Non può quindi venire da né dal francese né dal latino silvanus come parecchi vorrebbero». E questo è solo uno dei tanti esempi di argomentata dissidenza dalla vulgata. E in Ticino? «Simpaticamente, qualche amico spiega ancora che il nome della sua città equivale a Locarno = ‘luogo delle carni’. Si tratta invece, a nostro parere, di un tipo lessicale Levocarn. Che era qualifica delle località formulata sulla base di lev- che per secoli correva tra i nostri antenati per dire ‘lago’; cfr. i Leîtt della Leventina, che concretamente sono i ‘laghetti’».

La Campagna e il cemento

Lurati polemizza e diverte, ma qualche volta polemizza e basta, tingendo il suo saggio di verde: «Tardo Cinquecento e parte del Seicento si compiacciono del nome solenne: la comoda, agevole campagna che si stendeva tra Mendrisio e Genestrerio era la Campagna. Con solennità cinquecentesche diventerà la Campagna adorna (bella, prospera); ma noi oggi lo abbiamo del tutto cancellato questo aggettivo e la cospargiamo di cemento, fabbriche e distributori di benzina».

Il vero cavallo di battaglia dell’autore, tuttavia, sono i cognomi ticinesi. La sua disanima parte, noblesse obblige, dal Franscini il «padre dell’educazione popolare ticinese». Studiando il cognome, ricorda, «lo si riconduce a Frank, -z ‘libero’, poi anche ‘francese’, poi anche ‘francese, francesco’».

In questo ambito, tra le molte curiosità che spuntano tra le pagine, Lurati spiega che il termine «romano», a dispetto della connotazione negativa italico-leghista degli ultimi decenni («Roma ladrona»), «veniva usato a indicare, con richiamo all’antichità, la grande onestà dei Romani». Bene, quindi, per chi porta il cognome derivato da Romano, come Romelli, che «verso il 1510 (...) viene fatto divenire cognome.

Anche qui non manca qualche contestazione. «Suscitano dubbi gli studiosi che presentano come sicura una derivazione dei Trivulzi da un presunto trifurcium “incontro di tre vie’’, incrocio fatto quasi a forca». E una gustosa parentesi sui soprannomi citando il caso si Giraldo del Sgavezzino nella Comano nel 1589. «Era il tizio sgavezzaa, malconcio, zoppicante, sciancato, per il quale tra la nostra gente dura tuttora il commento di l’è n stravaca-madònn, nel senso che farebbe pencolare da un lato la portantina della statua della Madonna» in processione.

Gesù e il fucile

Ci fermiamo qui per quanto riguarda l’ampia rassegna di cognomi e nomi di famiglia che recano informazioni, tra gli altri, anche sui Bacciarini, i Bernasconi, i Berra, i Crivelli, i Mataschi, i Panzera i Peverelli e molti altri che vi lasceremo scoprire.

Si giunge così all’inaspettato epilogo consacrato, è il caso di dirlo, alle parole e alle espressioni derivanti dalla Bibbia o dalla religione. Qui il discorso si fa anche filosofico. Al di là degli scontati «piantare zizzania» e «aver talento», alla Bibbia, scrive Lurati, dobbiamo anche «le componenti culturali e storiche di quel termine fondamentale che è la parola. E si diffondono tra milioni di persone concetti quali spirito e carne. Perché alla ‘gente comune’ è in genere dalla cultura evangelica che giunge la nozione di carne come elemento di unità psicofisica dell’uomo».