«Se il piano di Trump fallisse, ci sarebbe un’escalation»

Vladimir Fedorovski è uno scrittore russo, figlio di un eroe ucraino della Seconda Guerra mondiale, recentemente uscito nelle librerie di Francia, dove ormai vive da molti anni, con il libro “D’Artagnan di San Pietroburgo”. In passato, è stato un diplomatico in Russia durante la presidenza di Michail Gorbačëv. Lo abbiamo raggiunto a Parigi.
Signor Fedorovski, a che punto siamo nella crisi ucraina?
«La situazione è a dir poco drammatica. Lunedì c’è stato un incontro in Germania al quale hanno partecipato anche gli europei e questo è qualcosa di estremamente importante e positivo. Nella questione ucraina la diplomazia è stata quasi uccisa, si è lasciato agli americani portare avanti la questione, ma adesso ci sono anche gli europei».
Come interpreta il fatto che l’evento si sia svolto a Berlino?
«È un simbolo diplomatico molto importante, perché indica la volontà della Germania di voler diventare la principale potenza militare del continente. La Francia deve svolgere un ruolo fondamentale, come quando in passato il mio amico Henry Kissinger incontrava i vietnamiti a Parigi».
Le recenti discussioni incentrate sulla pace fanno intravedere qualche spiraglio sulla fine del conflitto?
«Le vere trattative di pace arriveranno quando le conclusioni saranno presentate alla Russia, probabilmente la prossima settimana. Adesso siamo ancora a una fase di discussioni».
Donald Trump dopo aver mostrato un’intesa con Vladimir Putin sembra aver assunto una posizione più conciliante con Kiev.
«Non condivido la visione che hanno in molti del presidente statunitense, secondo la quale il suo modo di condurre le trattative si baserebbe molto sull’improvvisazione. Certo, non è un diplomatico di professione e porta avanti le negoziazioni a suo modo, con uno stile molto diretto, facendo il bello e il cattivo tempo. È una tattica. Durante la Guerra fredda, quando ero diplomatico, la diplomazia era molto efficace perché c’erano dei contatti tra le parti, a differenza di quanto avviene oggi. Su questo, Trump svolge un ruolo molto importante. Ha riallacciato i rapporti con gli europei, e questa è una cosa molto positiva».
Adesso la palla sta nelle mani di Mosca.
«In Russia c’è una tendenza, impersonificata da Kirill Dmitriev (consigliere di Vladimir Putin per la cooperazione economica e gli investimenti esteri, ndr), secondo la quale gli accordi con gli americani sono significativi e consentono di raggiungere un modus vivendi con i russi per evitare di andare verso il disastro. Poi c’è quella maggioritaria dell’esercito e dell’opinione pubblica, incentrata sul fatto che sono stati sacrificati molti russi e ormai la guerra è vinta. Ma in entrambi i casi né gli americani né i russi vogliono perdere i contatti, perché una simile eventualità sarebbe pericolosa».
Da diplomatico quale è stato, come bisogna portare avanti certe trattative?
«È un problema di negoziazione. In questo tipo di situazioni bisogna trovare l’equilibrio degli interessi basandosi sulla realtà, senza mettere nessuna delle parti spalle al muro. È così che siamo usciti dalla Guerra fredda. Per questo l’incontro di lunedì è stato importante. Mi infastidiva molto il fatto che l’Europa fino a quel momento si rifugiasse altrove, senza avere dei contatti con le parti. Stiamo parlando di qualcosa che sta avvenendo nel nostro Continente, per questo deve essere presente. Bisogna parlare con gli ucraini, ma anche con gli europei e in seguito con i russi, presentando loro un piano che funzionerà da base. O le trattative verranno portate avanti a casaccio, in modo non professionale, o si ritornerà alla mia epoca, quando si andava avanti dossier per dossier».
Quali dovrebbero essere i prossimi punti?
«Bisogna avanzare per tappe, cercando di arrivare un accordo su due nozioni molto importanti. La prima riguarda le garanzie di sicurezza, la seconda la realtà territoriale. Sono due punti sui quali si è trovato l’accordo in Alaska, dove ad agosto si sono incontrati Trump e Putin. Adesso bisogna capire in che modo organizzare queste garanzie. In merito ai territori, c’è stato un concetto, presentato inizialmente dall’inviato USA, Keith Kellog, che consiste nel congelamento del conflitto alla frontiera, con un modello molto simile a quello coreano. Poi c’è il concetto austriaco (in riferimento al Trattato di Stato austriaco del 1955 firmato dal governo e dalle potenze alleate che ridiede libertà e sovranità al Paese, ndr). Si tratterebbe di un accordo sulla neutralità. Ma i russi non bloccheranno certo il conflitto per consentire all’Ucraina di riarmarsi. Stanno avanzando sul terreno in modo significativo. Se il piano Trump non dovesse funzionare, ci sarà un’escalation».
La questione dei territori sembra essere il principale nodo da sciogliere.
«Su questo aspetto Trump è molto formale. Nei giorni scorsi ha detto ancora una volta agli ucraini che non hanno in mano le carte buone e che se non accetteranno il suo piano la situazione per loro si aggraverà tra qualche anno. È un concetto che ripete spesso, forse anche da giocatore. In ogni modo, gli europei non possono sostituirsi agli americani, soprattutto sul piano dell’intelligence, perché non hanno i mezzi finanziari adeguati. La situazione da questo punto di vista è drammatica. Anche se si utilizzassero gli asset russi congelati, ci vorrebbe del tempo, e l’Ucraina ha bisogno di almeno 200 miliardi di euro all’anno per sopravvivere».
In Europa si continua a parlare del congelamento degli asset russi in effetti, detenuti da Euroclear, ente basato in Belgio.
«È un dibattito giuridico. Su questo punto, Trump è più incline a incoraggiare i Paesi più scettici nell’utilizzo dei beni russi congelati. Non c’è solo l’Ungheria, ma anche Malta, la Bulgaria, la Repubblica Ceca, Malta… Ma gli americani vogliono utilizzare una parte degli asset a loro favore. È un aspetto che definirei pittoresco (ride, ndr)».