«Se la diplomazia annaspa, il riarmo diventa una necessità»

La stessa von der Leyen martedì ancora ricordava: «È il momento della pace attraverso la forza». Chi si oppone a questa idea sono spesso gli estremi, siano essi di sinistra o di destra. Viene anche da chiedersi quale sia, allora, il ruolo della diplomazia. Abbiamo rivolto alcune domande a chi incentra la sua ricerca proprio sul tema della guerra e della pace nel pensiero politico.
Professor Raschi, l’idea della pace attraverso il riarmo non è nuova. Ma che ruolo ha questa idea nella storia dell’Occidente?
«Tale concetto ha avuto un ruolo di rilievo nella storia del pensiero politico occidentale, in particolare nell’ambito delle relazioni internazionali. Su che cosa si basa? Sul fatto che un Paese, per garantire la pace, non riduce i propri armamenti ma mantiene una forza militare sufficiente a scoraggiare eventuali aggressori. Rientra in un discorso di realismo politico, pensiamo a Tucidide, a Machiavelli, che hanno insistito a descrivere il mondo come caratterizzato dall’anarchia, dominato dalla competizione tra gli Stati per il potere. E il riarmo diventa quindi una necessità per la sopravvivenza degli Stati stessi».
Chi si oppone all’idea del riarmo come strategia per garantire la sicurezza sono spesso gli estremi, siano essi di destra o di sinistra. Come se lo spiega?
«La convergenza degli estremi è un fenomeno politico abbastanza ricorrente, nella storia. Capita spesso che movimenti o partiti politici estremi di destra e di sinistra condividano alcuni obiettivi, pur con ragioni diverse. Per restare all’opposizione al riarmo, la sinistra populista ritiene che il pacifismo e l’antimilitarismo siano spazi che meritano di essere occupati. E allora questa parte politica sostiene che il riarmo porti solo a un’escalation dei conflitti e a una corsa agli armamenti che alimenta a sua volta l’economia di guerra. C’è anche una certa ostilità nei confronti del modo occidentale di organizzare la politica internazionale attraverso la NATO, vista come uno strumento di imperialismo occidentale».
E per la destra estrema?
«Viceversa, soprattutto i movimenti nazionalisti si oppongono al riarmo per una questione che può essere legata al sovranismo, all’isolazionismo, al rifiuto di coinvolgimenti in guerre che riguardano altri. Ma anche a una sorta di scetticismo nei confronti delle élite globali; nota comune, questa, anche alla sinistra più radicale. Entrambi gli estremi poi hanno una visione favorevole nei confronti della Russia, oltre che contraria alla NATO. Più in generale, questi partiti o movimenti si oppongono alla democrazia all’occidentale, a quella forma di governo fatta di pesi e contrappesi, di moderazione, di multilateralismo in ambito internazionale, di rispetto del diritto internazionale. Altro aspetto comune ai due estremi è l’antiamericanismo, che per molti studiosi di pensiero politico affonda le proprie radici sia nella cultura della destra europea, contraria all’individualismo e al materialismo della società americana, sia in quella di una sinistra che, riconoscendosi nell’Unione Sovietica, rifiutava il modello culturale ed economico-politico degli Stati Uniti».
Chi si dimostra atlantista, chi spinge per il riarmo quale chiave per il mantenimento della pace, viene etichettato come “bellicista”. Si veda von der Leyen. Ha senso questa equazione?
«Un’equazione che lascia il tempo che trova, proprio perché spesso la pace viene perseguita attraverso il riarmo, piuttosto che attraverso il disarmo. La guerra è un fenomeno sociale che esiste da sempre, che è radicato se non nella natura umana nella società umana. Il disarmo quindi rischia di favorire i leader e i Paesi più bellicosi. Pensare al riarmo oggi, in Europa, è una reazione al disimpegno degli Stati Uniti, i quali dalla Seconda guerra mondiale si sono occupati anche della difesa dell’Europa occidentale. Ma in questo momento la presidenza Trump si pone in discontinuità rispetto all’internazionalismo liberale e all’approccio multilaterale che hanno da sempre caratterizzato gli Stati Uniti. Se pensiamo alla Società delle Nazioni, è stata pensata da Wilson. Se pensiamo alle Nazioni Unite sono state volute fortemente da Franklin Delano Roosevelt e poi da da Truman».
La stessa NATO...
«Certo, un’alleanza regionale voluta dagli Stati Uniti. Ecco, in questo momento di disimpegno degli Stati Uniti, l’Europa si è trovata di fronte a una scelta: non contare nulla dal punto di vista militare, avendo sempre demandato la difesa agli USA, oppure riprendere in mano quella matassa che era stata abbandonata nel 1954, con il voto dell’Assemblea Nazionale a Parigi contro il trattato in vista di una Comunità europea della difesa (la CED, ndr)».
Allora L’Humanité, il giornale del partito comunista francese titolò: «La CED è stata bocciata. Vittoria del popolo di Francia e della pace».
«Ora però il contesto è cambiato. Non c’è più la Guerra fredda, e soprattutto gli Stati Uniti stanno prendendo posizioni che sono in controtendenza rispetto alla propria storia. E l’Europa si trova a dover investire nel riarmo. Certo, bisognerebbe distinguere tra un riarmo dei singoli Stati nazionali e un riarmo europeo, perché il primo rischia di essere del tutto inefficace, mentre attraverso il secondo le spese sarebbero più razionali e meno dispendiose. Ma gli Stati sono realmente disposti ad abbandonare la prerogativa fondamentale della propria sovranità, quella cioè dell’esercito? Non lo sappiamo, forse questa vicenda internazionale potrà in qualche modo forzare la storia e rimettere in moto l’idea di un esercito europeo comune».
In questo contesto in cui le armi diventano la forma principale di deterrenza, quale ruolo ha la diplomazia?
«Un importante studioso di relazioni internazionali, il filosofo francese Raymond Aron, esemplificava la politica internazionale stessa attraverso due soggetti, il soldato e il diplomatico (da qui il nome della dottrina stessa del suo pensiero, Le soldat et le diplomate, ndr). Aron definiva in qualche modo la naturale alternanza tra gli stati rappresentati dalle due figure: quando parla il soldato - simbolo del potere pubblico in tempo di guerra - è perché la diplomazia ha fallito, quando invece il soldato non parla è perché lo fa la diplomazia, il cui ruolo è prevenire la guerra. In realtà, anche durante la guerra, la diplomazia continua a parlare, a operare. Ecco, la diplomazia su scala globale arriva, anzi è tuttora, in una fase particolarmente complessa, è in difficoltà. Non è detto che continui a esserlo anche sul lungo periodo. Anche perché certamente, prima o poi, credo si arriverà a un accordo tra Ucraina e Russia. Probabilmente si arriverà a un accordo che tenderà a cristallizzare la posizione attuale, con la Crimea, occupata dai russi fin dal 2014, e buona parte del Donbass in mano alla Federazione russa. Che poi questa sia una pace giusta, è un altro discorso».
Nella guerra in Ucraina abbiamo imparato a conoscere il concetto di “pace giusta”. È una novità la contrapposizione tra pace e pace giusta? Che cosa caratterizza la giustizia di una pace?
«Innanzitutto sappiamo cosa sia una guerra giusta. Una guerra è giusta quando vi è una giusta causa - difendersi da un’aggressione, per esempio -, se dichiarata dall’autorità legittima e se è l’ultima opzione perseguibile, dopo aver provato ogni possibile mezzo pacifico. Ora, l’Ucraina, in questo senso, combatte una guerra giusta. È stata invasa e cerca quindi di tutelare la propria indipendenza nazionale. Detto questo, poi, la pace giusta probabilmente non esiste, in forma concreta, in questo mondo, molto prosaico, caratterizzato più dai rapporti di forza che non dalla giustizia. Bisogna allora perseguire quello che i filosofi morali chiamano male minore. Ora, quando la diplomazia entrerà davvero in gioco, dovrà per forza di cose tenere conto del fatto che la Russia, come minimo, questa guerra non l’ha persa. E gli alleati dell’Ucraina, penso naturalmente agli Stati Uniti ma anche all’Europa, non sono stati in grado di imporre alla Russia una pace giusta, né con gli strumenti dell’embargo economico né con gli strumenti bellici. Si arriverà di certo, e lo auspichiamo, a una forma di pacificazione, ma sarà - con ogni probabilità - una tregua o una pace più vicina agli interessi della Russia. Forse, invece di parlare di una pace giusta, sarebbe più opportuno iniziare a considerare, con buona dose di realismo, una pace proporzionata alla situazione attuale».
Più concreto appare il concetto di «pace duratura», allora.
«Se la pace giusta appartiene al mondo delle idee, è invece fondamentale raggiungere una forma di pacificazione che stabilizzi la situazione attuale, piaccia o meno. Non credo ci siano grandi alternative. Temo insomma che l’Ucraina, senza l’appoggio USA, non abbia la capacità di riconquistare i territori perduti. Capisco sia difficile da accettare, ma la politica internazionale e la guerra impongono realismo. È sempre stato così, i rapporti di forza contano più della giustizia nella maggior parte dei casi. La politica è sempre in bilico tra i rapporti di forza e la costruzione di un ordine politico equo. In questo caso, però, mi sembra che prevalgano i rapporti di forza».