«Se rimettiamo la frontiera con l’Irlanda ricominceranno le violenze»

BELFAST Il Parlamento britannico è chiamato ad esprimersi per la seconda volta in pochi giorni sulla Brexit. In particolare deve decidere se avallare le proposte del primo ministro Theresa May atte a garantire un’uscita «soft» dall’Unione europea, oppure respingere ogni accordo e dunque abbandonare l’UE in modo «hard». A seguire con grande apprensione il dibattimento alla House of Parliament sono in molti, in continente ma anche in ogni angolo del Regno Unito. Soprattutto nelle sei contee dell’Irlanda del Nord, il luogo dove le trattative tra Bruxelles e Londra hanno incontrato i maggiori ostacoli e dove la popolazione è, alla stregua del Parlamento, divisa sul da farsi. Anche se tutti, indistintamente, si augurano che ciò che accadrà non faccia ripiombare l’Ulster nei cupi e tragici scorsi decenni. «Questo è suolo britannico, perdio!», esordisce Thomas, pensionato di Shankill, uno dei quartieri più marcatamente unionisti di Belfast, quando gli chiediamo un commento sull’accordo appena respinto dal Parlamento: «Sarebbe inaccettabile avere una frontiera che ci separa dalle altre regioni del nostro Paese e non averne con un Paese straniero».
Sono in molti da queste parti ad essere convinti, come lui, che l’accordo rappresenti una sorta di tradimento dell’establishment a quell’Irlanda del Nord unionista alla quale deve la sua stabilità (non dimentichiamo che l’esecutivo May trovò la maggioranza per governare solo grazie all’appoggio del DUP). «Ci aveva promesso che non avrebbe mai accettato un accordo che ci separasse dalla Gran Bretagna, eppure alla fine è bastato poco per metterci ancora una volta in secondo piano... Siamo un agnello sacrificale!» dice ancora Thomas, che critica il primo ministro citando a braccio le dichiarazioni dei parlamentari DUP apparse sui giornali.

Per sentire voci contrarie basta però percorrere quelle poche centinaia di metri – attraverso i cancelli di ferro che ancora vengono sprangati di notte – che separano Shankill dalla Falls Road, l’arteria lungo la quale si articola il principale quartiere cattolico-irlandese della città. «Noi irlandesi abbiamo votato tutti contro la Brexit» afferma Sean, fuori dal suo negozio di alimentari all’ingrosso, «e non solo noi, dato che abbiamo respinto il referendum con una netta maggioranza. Oltre ai lealisti più sfrenati, nessuno avrebbe voluto lasciare l’UE». Per il commerciante, l’abbandono del mercato comune sarebbe semplicemente troppo dannoso: «l’unico confine che abbiamo è con l’Irlanda. Se rimettiamo la frontiera, i repubblicani insorgeranno e ricominceranno le violenze, e inoltre in molti andranno in rovina... Io per esempio commercio moltissimo con l’Irlanda, e se dovessero introdurre dei dazi sarebbe la fine. Da convinto oppositore alla Brexit sono arrivato a sperare che questo accordo passasse, perché qualsiasi accordo sarebbe meglio di un’uscita senza accordo!».

Il clima di incertezza si estende poi naturalmente alla comunità internazionale di Belfast, che si dipana tra i quartieri della Queen’s University, che accoglie ogni anno centinaia di studenti da tutto il mondo, e il centro città, con le sedi delle multinazionali che attirano lavoratori dall’estero. «Il mio è un contratto temporaneo», ci dice Christiane, che è arrivata dalla Germania per lavorare, «e francamente mi chiedo se mi convenga o meno cercare di estenderlo e di costruirmi una carriera qui, dato che magari tra due anni non avrò nemmeno il diritto di lavorare nel Regno Unito. Io cerco di aggiornarmi sugli sviluppi, ma mi sembra che ci sia ancora molta vaghezza e poche assicurazioni su quello che succederà concretamente». Più fiduciosi invece gli studenti come Andrea, un ragazzo italiano che frequenta la monumentale università cittadina: «Troveranno di sicuro un qualche tipo di accordo, presto o tardi: non credo davvero che di colpo ci manderanno tutti a casa! E poi comunque io al momento dell’entrata in vigore della Brexit (il periodo di transizione terminerà alla fine del 2020 – ndr) avrò già finito gli studi, sperando di non bocciare nessun esame!».

Ci sono poi famiglie in qualche modo più interessate di altre dalle possibili dinamiche della Brexit, come quella composta da Patrick, cattolico nordirlandese e dalla moglie Samantha, inglese. «Io ho quasi quarant’anni», dice Patrick, «ho vissuto i “Troubles’” e me li ricordo bene: la violenza, i soprusi, le bombe... Da quando stata fatta la pace e non c’è più la frontiera con l’Eire le cose vanno decisamente meglio, e una sua reintroduzione sarebbe semplicemente una mossa sbagliata e pericolosa». Nonostante la sua dichiarata simpatia repubblicana, Patrick non si dice insensibile alle rimostranze dei lealisti che non accettano la separazione doganale dal Regno Unito: «in fondo, significa sostanzialmente essere considerati come britannici all’estero, pur restando in patria: mia moglie, per dirne una, per andare a trovare la sua famiglia dovrebbe attraversare una dogana, pur senza uscire dal Regno Unito. «Naturalmente», interviene lei, «la soluzione ideale sarebbe stata quella di non uscire dall’UE – ma oramai è troppo tardi».
Forse, per poter intavolare un dialogo che abbia veramente come unico oggetto il benessere della popolazione nordirlandese, senza l’influsso di politiche ancora largamente pilotate dai conflitti comunitari, bisognerà aspettare che arrivi al potere la generazione di Matthew che, poco più che ventenne, afferma con nonchalance: «gran parte di quelli della mia età se ne frega dei “Troubles”, della politica, della religione... Io sono cattolico, ma sono cresciuto a East Belfast (una zona a stragrande maggioranza protestante – ndr) e sono andato in una scuola integrata con ragazzi di entrambe le comunità, molti miei amici sono di famiglia protestante. Sarebbe ridicolo pensare oggi di litigare ancora». Che non sia proprio questo «menefreghismo» giovanile a dare una svolta alla delicata situazione?