Sette cose da sapere sulla Brexit

Ci siamo. Mancano solo 35 giorni all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. A mezzanotte del 29 marzo (le 23.00 in Gran Bretagna) la Brexit entrerà in vigore a tutti gli effetti. Il regno di Elisabetta II diventerà un Paese terzo e inizierà il periodo di transizione nel quale le due parti dovranno stipulare gli accordi commerciali. Dopo 971 giorni dal quel fatidico 26 giugno del 2016, la situazione politica tra le parti sembra oggi più caotica che mai. I negoziati attualmente sono in una fase di stallo ma, per scongiurare il cosiddetto «no-deal» (l’uscita dall’Unione senza un accordo), uno scenario malvisto praticamente da tutte le parti in causa, nelle prossime decisive settimane sarà necessario trovare il bandolo della matassa. Cerchiamo di fare il punto della situazione. Le notizie sul fronte politico giungono quasi esclusivamente da Westminster, dove le opinioni su come affrontare la delicata situazione divergono, sia all’interno del partito dei Tory guidato da Theresa May, sia tra quest’ultimo e l’opposizione laburista guidata da Jeremy Corbyn. In sostanza, una vera e propria maggioranza con le idee in chiaro non esiste.
1. Le fratture
La spaccatura all’interno della Camera dei Comuni è testimoniata dall’esito dalle votazioni del mese scorso. Il 15 gennaio il Parlamento britannico ha infatti bocciato a grande maggioranza l’accordo raggiunto a novembre da Theresa May con l’Unione europea. Ben 432 deputati hanno affossato il testo, mentre solo 202 hanno appoggiato il piano della premier britannica. Malgrado i tentativi di Theresa May di trovare un dialogo con l’opposizione, Corbyn ha presentato una mozione di sfiducia nei suoi confronti. Mozione che poi, a due giorni di distanza dal rigetto del suo accordo, è però anch’essa stata bocciata con 325 voti contrari e 306 a favore. In sostanza, il Parlamento vuole lasciare alla May l’arduo compito di trovare una soluzione, ma non accetta l’accordo da lei presentato. E così, nei giorni successivi, il Legislativo britannico ha chiesto alla premier di tornare a Bruxelles per rinegoziare l’accordo, in particolare la delicata questione del «backstop». La stessa premier, nel tentativo di strappare qualche improbabile concessione all’UE, ha chiesto al Parlamento di darle tempo sino al 27 febbraio per negoziare e presentare un nuovo accordo. Durante questi negoziati, almeno fino ad oggi, di sostanziali progressi non ce ne sono stati, ed entrambe le parti sono rimaste sulle proprie posizioni. Alla Camera dei Comuni, con l’avvicinarsi dell’ora «X», si sono poi prodotte ulteriori spaccature: a metà febbraio, a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro, sia il partito conservatore che quello laburista hanno subito delle defezioni. La formazione di Jeremy Corbyn ha «perso» otto deputati, contrari alla visione del leader laburista. Otto franchi tiratori ai quali pochi giorni dopo si sono aggiunti anche tre deputati Tory.
2. La questione «backstop»
Theresa May, come detto, è tornata a febbraio nella capitale europea per tentare di ridiscutere alcuni punti dell’accordo raggiunto con la controparte nel novembre del 2018. Tuttavia, su questo fronte l’Unione europea si è mostrata compatta: «L’accordo per l’uscita non è rinegoziabile», hanno ribadito più volte i suoi vertici. Come dicevamo, il punto più controverso dell’accordo che i detrattori della premier vorrebbero rinegoziare è il cosiddetto «backstop». Di cosa si tratta? Traducibile come «rete di protezione», è un meccanismo voluto in particolare dall’UE nell’eventualità che, nei due anni successivi all’entrata in vigore della Brexit, quando saranno negoziati gli accordi economici tra le parti, non si riesca a raggiungere un’intesa e venga così a crearsi un confine «rigido» tra la Repubblica d’Irlanda (membro dell’UE) e l’Irlanda del nord. Uno scenario che si vuole scongiurare a tutti i costi per evitare di far riemergere le sanguinarie tensioni che per decenni hanno contraddistinto il rapporto tra questi due Paesi. In sostanza, non si dovesse raggiungere un accordo commerciale tra UE e Gran Bretagna, con questo meccanismo l’Irlanda del nord resterebbe in ogni caso integrata al mercato unico europeo. È molto probabile, quindi, in questa eventualità che il confine «rigido» venga a crearsi non tra l’Eire e l’Ulster, bensì nel tratto di mare che separa l’isola verde dal resto dell’Unione. In Inghilterra questo punto dell’accordo ha suscitato molte reazioni negative poiché, in tal caso, si verrebbe a creare una spaccatura all’interno del Regno Unito. Inoltre, questo meccanismo per essere in qualche modo revocato necessita dell’approvazione di entrambe le parti: i conservatori temono dunque che l’Unione possa far diventare questa misura perenne, evitando di fatto una vera e propria Brexit. L’UE, però, si è mostrata inflessibile nel rinegoziare questo punto dell’accordo.

3. La proposta dei laburisti
Il leader dell’opposizione britannica, Jeremy Corbyn, sin dall’inizio delle trattative con l’UE, mantenuto un ruolo molto ambiguo. Non ha infatti mai espresso chiaramente la sua posizione in merito. Tuttavia, il 6 febbraio, ha inviato una lettera alla premier offrendo un compromesso. Si è infatti detto pronto ad appoggiare la maggioranza in Parlamento nel caso in cui Theresa May accettasse cinque condizioni precise. Condizioni che equivarrebbero, in sostanza, ad una «soft Brexit». Le cinque richieste prevedono infatti un’unione doganale «globale per il Regno Unito» tale da garantire a priori una frontiera senza barriere in Irlanda; un parziale «allineamento» al mercato unico; un «allineamento dinamico» all’UE sui diritti dei lavoratori (in modo che gli standard del Regno Unito non siano inferiori a quelli degli altri Paesi membri); la partecipazione britannica ad alcune agenzie dell’Unione e, infine, sul fronte della sicurezza, garanzie sul mantenimento del mandato d’arresto europeo. Theresa May, in linea di principio, non ha tuttavia accettato tale proposta.
4. Gli scenari possibili
In questo complicato contesto, per avere risposte certe, ci vorrebbe un cartomante. Fatti concreti che indichino una direzione chiara nella quale i negoziati stanno andando non ce ne sono. Tuttavia alcune piste sono individuabili. 1) Con qualche leggera modifica all’attuale accordo, la premier britannica, sfruttando il poco tempo a disposizione e la necessità di evitare lo scenario «no-deal», potrebbe finalmente trovare una maggioranza in Parlamento grazie all’appoggio dei laburisti e dell’ala più moderata del suo partito. 2) L’Unione europea e la Gran Bretagna si accordano per prolungare la data d’uscita di qualche mese. Quest’ipotesi era già stata paventata nell’ottobre dello scorso anno e poi scartata dalla stessa Theresa May. Tuttavia, visto il poco tempo a disposizione, lo scenario potrebbe tornare in auge nei prossimi giorni. Se ciò dovesse accadere, con ogni probabilità la Gran Bretagna, paradossalmente, parteciperà alle elezioni europee previste in maggio. 3) Se questo periodo venisse prolungato e non fosse comunque possibile trovare un’intesa, potrebbe infine tornare credibile la possibilità di indire un nuovo referendum per chiedere ai cittadini britannici di esprimersi nuovamente sulla questione. Questa possibilità, tuttavia, ad oggi è molto remota.
5. In questi giorni
Ieri il leader laburista Jeremy Corbyn si è incontrato a Bruxelles con Michel Barnier, il capo negoziatore della Brexit per l’Unione europea. «Abbiamo avuto una serie di discussioni franche e informative», ha spiegato oggi Corbyn alla stampa. «Il pericolo di una Brexit senza accordo è molto serio e presente». Riferendosi alla possibilità di un secondo referendum sulla Brexit, ha inoltre affermato: «Faremo una mozione in Parlamento, come abbiamo già fatto. In quel caso era stato rigettato, ma chiaramente è parte dell’agenda avanzata dal partito laburista». Il leader del partito ha infine aggiunto: «Abbiamo chiarito che non vogliamo un’uscita senza intesa». Sul fronte opposto, come annunciato ad inizio mese, Theresa May martedì prossimo terrà un discorso in Parlamento nel quale spiegherà lo stato attuale delle trattative. Il giorno successivo, mercoledì 27 febbraio, il Legislativo dovrebbe votare un importante emendamento proposto da una deputata laburista che prevede, in sostanza, che il Parlamento scongiuri definitivamente lo scenario «no deal». Dovesse passare – anche se ad oggi una vera maggioranza che sostiene l’emendamento non c’è – il Parlamento potrebbe chiedere una proroga rispetto alla data del 29 marzo, scavalcando quindi la volontà della stessa premier.
6. Dopo il 29 marzo
Va infine precisato un aspetto importante. Se quanto avete letto finora vi è sembrato complicato, non potete immaginare ciò che avverrà dopo il 29 marzo (se un’intesa sarà trovata tra le parti). Dopo questa data, infatti, inizieranno i veri e propri negoziati commerciali per un periodo di transizione di due anni, eventualmente estendibile, durante i quali la Gran Bretagna continuerà comunque ad essere soggetta alle leggi europee e a far parte del mercato unico e dell’unione doganale: una fase forse ancor più complessa di quella affrontata finora. Ma questa, va detto, è decisamente musica del futuro.
7. E la Svizzera?
Lo scorso 11 febbraio la Confederazione ha firmato con la Gran Bretagna un accordo commerciale per far sì che gli attuali obblighi economici tra le parti restino in vigore anche nel caso in cui il Regno Unito uscisse dall’Unione senza un’intesa. Tale intesa riguarda in particolare l’accordo di libero scambio del 1972, l’accordo sui mercati pubblici, sulla lotta alla frode, sull’agricoltura e una parte di quello sul reciproco riconoscimento di valutazione della conformità.

LA CRONOLOGIA
Il 23 giugno del 2016 il popolo britannico vota a favore del referendum per lasciare l’Unione europea con 51.89% delle schede favorevoli. Qualche giorno più tardi il primo ministro David Cameron si dimette, lasciando spazio alla vincitrice delle «primarie» del partito conservatore Theresa May. Dopo aver consultato la Camera dei Comuni, il 29 marzo del 2017 la premier britannica consegna al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk la lettera per dare l’avvio alla procedura prevista dall’articolo 50. Il 19 giugno 2017 iniziano ufficialmente i negoziati tra le parti. Il 10 novembre, la Theresa May indica la data d’uscita dall’Unione: il 29 marzo 2019 alle 23.00 ora britannica. L’otto e il nove luglio 2018 si si dimettono il ministro della Brexit David Davis e il ministro degli Esteri Boris Johnson, in disaccordo con la linea adottata dalla premier. In Governo gli subentrano Dominic Raab e Jeremy Hunt. Nel novembre 2018 il Regno Unito e l’Unione europea raggiungono un accordo provvisorio sul trattato che regolerà la Brexit. Theresa May convoca una riunione di Governo straordinaria per sottoporre l’accordo al giudizio dei suoi ministri. Dopo una riunione durata 5 ore la premier annuncia la sua approvazione. Tuttavia il giorno seguente il segretario per la Brexit Dominic Raab si dimette. A fine novembre i 27 leader europei durante un Consiglio europeo straordinario approvano la bozza dell’accordo. Il 15 gennaio del 2019, però, la Camera dei Comuni boccia l’accordo raggiunto da Theresa May con 432 voti contrari.