L’analisi

Si parla di accordo: sarà davvero pace fra le due Coree?

Negli scorsi giorni il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha dichiarato di una disponibilità «in linea di principio» da parte di tutti gli attori a mettere formalmente la parola «fine» al conflitto che, ufficialmente, rimane aperto dagli anni ‘50 - Ma tra un possibile trattato e la vera stabilità, c’è un oceano - Ne parliamo con l’esperto Antonio Fiori, professore presso l’Università di Bologna
Kim Jong-un e Moon Jae-in, i leader della Corea del Nord e del Sud, si strinsero la mano già nel corso dell’incontro tenutosi il 27 aprile 2018 a Panmounjom. Negli scorsi giorni si è tornati a parlare di accordi: che la pace sia più vicina? / © Korea Summit Press Pool via AP
Giacomo Butti
15.12.2021 06:00

Sono passati quasi settant’anni dall’armistizio di Panmunjom, patto firmato il 27 luglio 1953 che pose fine alla Guerra di Corea (scoppiata il 25 giugno del 1950). Un armistizio, per definizione, non è però un accordo di pace: rappresenta solo la sospensione delle ostilità. In sostanza, almeno a livello formale, le due Coree sono ad oggi ancora in guerra. Proprio in questi giorni, però, il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha parlato di una disponibilità «in linea di principio» da parte di tutti gli attori a mettere finalmente e ufficialmente la parola «fine» alla Guerra. Che conseguenze potrà avere un accordo, dovesse arrivare, sulla regione? Davvero le tensioni tra i due Paesi si ridurranno? Ne abbiamo parlato con Antonio Fiori, professore di Storia e istituzioni dell’Asia presso l’Università di Bologna ed esperto della questione coreana.

Il presidente della Corea del Sud Moon Jae-in. / © Korea Summit Press Pool via AP
Il presidente della Corea del Sud Moon Jae-in. / © Korea Summit Press Pool via AP

La disponibilità vincolata

«Il raggiungimento di un accordo di pace potrebbe rappresentare un notevole passo avanti nella relazione tra i due Paesi», ammette inizialmente Fiori. Ma c’è un però: «Della possibilità di superare l’armistizio se ne parla da decenni. Le uscite degli ultimi giorni non sono nulla di nuovo. Già la dichiarazione del 1991 (South-North Agreement) andava in questa direzione. Lo abbiamo visto anche in tempi più recenti, il 27 aprile 2018, con la dichiarazione di Panmounjom, quando i due leader si sono incontrati per discorrere nuovamente di ‘‘pace, prosperità e riunificazione’’. Si procede sempre nella stessa direzione senza che i discorsi si traducano in una scelta sostanziale». Questa volta sarà diverso? «La dinamica è la stessa: il presidente sudcoreano Moon Jae-in ha parlato di una disponibilità ‘‘in linea di principio’’ alla firma di un accordo di pace. E un segnale di apertura è arrivato da Pyongyang per voce della sorella del leader, Kom Yo-jong. Ma si tratta comunque di una disponibilità vincolata: la Corea del Nord punta sempre i riflettori sulla supposta ostilità che gli Stati Uniti continuano a nutrire nei confronti del regime». Un’inimicizia che si manifesterebbe in diversi modi, sottolinea il professore dell’Università di Bologna: «Quando Pyongyang parla di ostilità statunitense, lo fa pensando ai 28 mila soldati statunitensi stanziati in Corea del Sud, al contingente americano (peraltro sempre meno nutrito) ancora presente nelle vicine basi giapponesi e, soprattutto, alle esercitazioni militari congiunte che gli Stati Uniti portano avanti con Seul al largo delle coste nordcoreane». Tutti fattori «dall’importanza cruciale» che allontanano la tanto sospirata stretta di mano.

I 28 mila soldati statunitensi stanziati in Corea del Sud? Una presenza anacronistica ma dal forte potenziale simbolico

«È ovvio che 28 mila soldati statunitensi di stanza a Pyongtaek, nella Corea del Sud, non serviranno a nulla nel malaugurato caso in cui un conflitto dovesse scoppiare nella Penisola: non saranno certo loro a salvare Seul. Si tratta di una presenza a mio parere fortemente anacronistica ma dal forte potenziale simbolico. Mandare via gli americani significherebbe dare ragione o perlomeno rafforzare la narrativa nordcoreana». Ma non è questo l’unico bastone fra le ruote della pace: «Un’altra domanda da porsi, per quanto possa sembra banale, è la seguente: chi ratifica il patto? Nel 1953 al tavolo si sedettero nordcoreani, cinesi e rappresentanti (statunitensi) delle Nazioni Unite. La Corea del Sud non c’era (l’allora presidente Syngman Rhee rifiutò di accettare il fallimento della riunificazione della Penisola, ndr). Chi dovrebbe partecipare oggi a questo tipo di negoziato? Le due Coree soltanto? O anche l’intero ambiente internazionale? Dovrebbe essere solo un accordo bilaterale o multilaterale?». Tutte domande senza risposta. E non finisce qui: «L’articolo 3 della Costituzione sudcoreana, uno dei più importanti, dice che i territori della Repubblica di Corea consistono della Penisola e delle isole adiacenti. I sudcoreani dunque non riconoscono come Stato sovrano la Corea del Nord. Questo è un formalismo che può essere aggirato, ma solo tramite un emendamento della Costituzione, un aspetto non da nulla», afferma Fiori.

Ma dove si nasconde la vera pace?

Insomma, le difficoltà per arrivare a un patto sono diverse. Ma anche dovesse arrivare, una firma sull’accordo porterebbe davvero al dissolversi delle tensioni fra Coree? Vedremmo una vera pace? «Tecnicamente i due Paesi sono in uno stato di guerra. Ma dal 1953, a parte alcune schermaglie, grossi conflitti non sono stati registrati. Rendere ufficiale la fine della Guerra porterebbe a cambiamenti effettivi? Probabilmente no. Il trattato di pace, inteso come documento che viene ratificato dalle parti, non è a parer mio sufficiente. Sarebbe, come già detto, un passo avanti, ma bisognerebbe costruire nella Penisola coreana un regime di pace che non si esaurisce nel semplice accordo firmato».

Senza fiducia reciproca, l’accordo di pace rischia di regalarci lo stesso scenario che abbiamo già davanti agli occhi dal 1953

«Senza misure di costruzione della fiducia (Confidence-building measures), senza una riduzione simultanea della tensione, senza un innesco del processo di riconciliazione nazionale, un trattato di pace servirebbe davvero a qualcosa? Senza la fiducia reciproca, il solo accordo rischia di regalarci lo stesso scenario che già abbiamo davanti agli occhi dal 1953: due Paesi che convivono nella Penisola in maniera più o meno conflittuale a seconda del periodo». Per ottenere veri risultati, insomma, un pezzo di carta non basta. «Servono il riconoscimento reciproco e la volontà di lavorare nel lungo periodo a un obiettivo condiviso». E nella creazione di un regime di pace, «il processo di smantellamento dell’arsenale nucleare ha una posizione essenziale», sottolinea Fiori. «Ma il disarmo deve essere l’obiettivo ultimo del processo di pace: non deve essere un prerequisito. L’operazione stessa di smantellamento richiederebbe almeno una decina d’anni. Il regime di pace deve strutturarsi in funzione dell’obiettivo di denuclearizzazione, non può partire da esso: sarebbe uno sbaglio assoluto».

Il disarmo nucleare deve essere l’obiettivo ultimo del processo di pace, non un suo prerequisito

L’ombra di Washington e Pechino

Ma cosa fare se il processo di pace non è un tête-à-tête? All’appuntamento, sembrano voler fare una comparsata anche dei «terzi incomodi»: le superpotenze che già durante la Guerra avevano preso le parti di Corea del Sud e Corea del Nord, rispettivamente, Stati Uniti e Cina. Loro, che negli anni ‘50 (unitamente all’allora URSS) avevano utilizzato la Penisola come proprio scacchiere, vedranno di buon occhio una pace che chiuda ogni possibilità di usare il territorio come arena di scontro? «Difficile dare una risposta a questa domanda. Il mondo è cambiato: non siamo più di fronte allo scenario nel quale si è generata questa situazione. Siamo in un momento geopolitico molto diverso. Né gli Stati Uniti né la Cina sono gli stessi di allora. I primi stanno attraversando una crisi dell’ordine liberale alla guida del Paese, la seconda è cresciuta in modo impetuoso sia in termini economici sia in termini politici. Per quanto riguarda la situazione nella Penisola coreana, l’unico interesse condiviso dalle due superpotenze è quello di cercare un tipo di stabilità», chiosa il professore. «È naturale poi che per i singoli attori essa abbia significati diversi: per gli Stati Uniti ‘‘stabilità’’ significa vedere i nordcoreani rinunciare agli armamenti nucleari ed essere messi nelle condizioni di non nuocere. Che poi il regime continui ad esistere, importa poco a Washington. Per la Cina il discorso è diverso: il Dragone guarda al continente asiatico come al giardino di casa, un luogo dove fare affari, in cui andare avanti con il proprio assetto relazione. Per Pechino la mancanza di stabilità è una minaccia ai propri piani economici e politici». Si ritorna dunque a una delle domande precedenti, la più importante: ‘‘Davvero l’accordo di pace porterebbe stabilità?’’. «Se la risposta è ‘‘sì’’, allora entrambe le superpotenze potrebbero essere interessate a sostenere il trattato. Ma dato che la visione stessa del concetto di ‘‘stabilità’’ differisce, è difficile che Stati Uniti e Cina siano disposte ad attuare lo stesso piano per raggiungerla». Pechino, del resto, potrebbe volersi accontentare dello status quo: «La Corea del Nord non disturba in sé la vita della Cina, è il possibile aggravarsi della situazione nella Penisola a impensierire». Una delle preoccupazioni, per fare un esempio, riguarda le carestie che da tempo imperversano nel Paese di Kim Jong-un: «La leadership cinese guarda con attenzione al potenziale afflusso di rifugiati. Pechino non vuole certamente la responsabilità di accomodare tutti all’interno dei propri confini».

Xi Jinping, il presidente della Repubblica popolare cinese. / © EPA/Ju Peng
Xi Jinping, il presidente della Repubblica popolare cinese. / © EPA/Ju Peng

Le Olimpiadi e quel «no» a un boicottaggio

Nella regione, poi, si avvicina a grandi passi un evento importante: i Giochi olimpici invernali, che si terranno a Pechino nel 2022. Una manifestazione sportiva che, sempre più, sta assumendo connotazioni politiche: diverse le nazioni che già hanno annunciato di volerla boicottare, almeno a livello diplomatico. A settembre, poi, il Comitato olimpico aveva già imposto un divieto di partecipazione ai Giochi cinesi alla Corea del Nord. Il motivo? La decisione «unilaterale» dei nordcoreani di non aderire a quelli di Tokyo, presa (a detta di Pyongyang) per paura di vedere i propri atleti contagiati dal dilagante coronavirus.

Fra le nazioni che hanno deciso di non schierare una propria rappresentanza diplomatica a Pechino, forse un po’ a sorpresa, non figura però la Corea del Sud. Proprio nella notte fra domenica e lunedì, il presidente Moon Jae-in ha infatti annunciato di non avere intenzione di unirsi al protesto.

Moon Jae-in non può fare a meno dell’alleanza militare con Washington, così come non può fare a meno di quella economica con Pechino

Un controsenso? «Non proprio», spiega Fiori. «Il leader sudcoreano ha vissuto tutto l’arco della sua presidenza in bilico fra Stati Uniti e Cina. Mi spiego: l’attuale amministrazione sembra aver deciso scientemente di tenersi aperti tutti gli scenari. Se dal punto di vista strategico e militare, Moon Jae-in non può fare a meno dell’alleanza con Washington, da quello economico la situazione è molto diversa. È dal periodo 2003-2004 che la Cina rappresenta ormai il primo partner della Corea del Sud: Seul vive di riflesso della spinta economica di Pechino. All’incirca 600 mila sudcoreani lavorano e vivono nella Repubblica popolare cinese e una miriade di società investono nel territorio sinico. Per questo motivo non può essere presa una decisione netta sulla due superpotenze: entrambi i lati sono da preservare. Non è detto poi che, a seguito delle elezioni che si terranno in marzo, il nuovo Governo (se più conservatore) non possa decidere di cambiare le carte in tavola, ma qualunque sia il risultato delle urne sembra poco plausibile un allentamento dei rapporti con la Cina: Seul avrebbe troppo da perdere in termini economici».

L’apertura (o, meglio, la non chiusura) della Corea del Sud ai Giochi di Pechino 2022, insomma, non deve stupire. E la Corea del Nord? Starà a guardare? «Potrebbero esserci delle sorprese. Non vorrei fare delle previsioni avventate, ma in questo scenario ritengo più che possibile che qualcuno della leadership nordcoreana partecipi perlomeno all’apertura dei Giochi: il rapporto con Xi Jinping (il presidente della Repubblica popolare cinese, ndr) è in questo momento particolarmente stretto. Nonostante l’isolamento per paura della pandemia, Pyongyang non può prescindere dai rapporti con la Cina: credo che, magari anche solo in termini simbolici, i nordcoreani cercheranno di essere presenti a Pechino», conclude Fiori.