COP29

«Si tratta di prendere decisioni usando la scienza come bussola»

Si apre oggi, in un contesto internazionale quanto mai complesso, la Conferenza delle parti di Baku - All’ordine del giorno vi saranno la finanza per il clima e nuovi piani nazionali con orizzonte 2035 - La climatologa Elisa Palazzi: «È una partita in cui o si vince tutti o nessuno»
© EPA/MIGUEL ANGEL POLO
Paolo Galli
11.11.2024 06:00

E siamo a ventinove. Ventinove COP, alcune delle quali storiche - Kyoto 1997, Copenaghen 2009, Parigi 2015 -, altre forse meno memorabili. Da Berlino siamo arrivati a Baku, in Azerbaigian, lungo un fil rouge che a volte si è annodato, o perso, e che il prossimo anno guiderà il mondo verso Belém. Quindi verso l’Amazzonia, che di questo mondo è simbolo stanco. La COP di Baku - ricordiamo che COP sta per Conferenza delle parti e rientra nella convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici - segue di pochi giorni la presentazione del rapporto Emissions Gap del Programma dell’ONU per l’ambiente, secondo cui, con le promesse attuali dei Governi sul clima, il riscaldamento globale toccherà i 3,1 gradi entro la fine del secolo. Per parlarne, per parlare di questa COP che promette di essere «finanziaria», abbiamo coinvolto Elisa Palazzi, climatologa, docente di fisica del clima all’Università di Torino. La professoressa fa parte del comitato scientifico dell’associazione L’Uomo e il Clima. «Sì, si parla di COP finanziaria perché con la COP29 si dovrebbe definire il quadro della finanza per il clima dopo il 2025. In particolare in relazione al Fondo Loss & Damage istituito con la COP27 al fine di risarcire i Paesi che hanno già avuto enormi perdite e danni per una crisi climatica che poco o niente hanno contribuito a generare, e per l’adattamento. Con la COP di Baku si dovrebbero creare meccanismi per mobilitare le risorse e assicurare che le stesse siano destinate dove ce n’è più bisogno». Un altro obiettivo importante della COP sarà definire i nuovi piani nazionali per il clima con orizzonte 2035. «Entro febbraio 2025 i Paesi dovranno aggiornare i loro Contributi Nazionali Volontari, i cosiddetti NDC, rivedendo quelli al 2030 e formulando quelli nuovi al 2035. Da quegli obiettivi dipende la possibilità di rispettare gli obiettivi sul contenimento dell’aumento di temperatura a fine secolo definiti con l’accordo di Parigi».

La cornice

L’impressione, alla vigilia, è che non tutti abbiano fatto i «compiti a casa», tra una COP e l’altra. Sarà anche colpa della situazione internazionale, certo. Ma non può essere un alibi assoluto. «I conflitti e le guerre cambiano il clima. Lo fanno in primo luogo attraverso le emissioni climalteranti che il settore militare produce, sia in tempo di pace che di guerra. Le stime a disposizione indicano che tali emissioni ammontano al 5% circa di quelle globali e derivano principalmente dallo spostamento di militari, mezzi di trasporto, armi ed equipaggiamenti; dal sostentamento delle basi; dalle esplosioni e armi incendiarie (che spesso distruggono enormi aree di vegetazione); dalla pratica del gas flaring (combustione di gas); dai costi ambientali delle missioni umanitarie», spiega ancora la professoressa Palazzi. Contrariamente a quanto accade per le emissioni derivanti dagli altri settori legati alle attività umane - come la produzione di energia da fonti fossili, l’industria, i trasporti, l’agricoltura e l’allevamento, l’edilizia -, «fin dall’accordo di Kyoto del 1997 il settore militare è stato escluso dai trattati internazionali sul clima per quanto riguarda l’obbligo di ciascun Paese di comunicare le proprie emissioni, passo chiave per definire anche le politiche di riduzione delle stesse. Le guerre cambiano il clima anche per l’impatto che hanno sulle politiche di transizione energetica, provocandone un forte rallentamento». E influenzando l’economia e l’opinione pubblica. Le stesse elezioni americane hanno dimostrato come la questione climatica sia passata in secondo piano dal punto di vista politico. E c’è chi sottolinea come l’esito registrato, con il trionfo di Donald Trump, potrà condizionare le discussioni alla COP29. «Il timore che ciò possa accadere c’è, poi come diceva Seneca “anche se il timore avrà più argomenti tu scegli la speranza”. La mia speranza, ora che si aprono i negoziati sul clima, è che, nonostante la loro complessità, il mondo politico affronti i fatti e punti in alto, con le ambizioni e con i piani per raggiungerle».

Il ruolo degli scienziati

Arriviamo da mesi drammatici dal punto di vista climatico e meteorologico, dai nuovi record delle temperature agli uragani, fino a nuove alluvioni. Eppure anche questi eventi non fanno la differenza sul piano dell’opinione pubblica. E quindi? Elisa Palazzi riflette: «La domanda riguarda un tema complesso e centrale nel rapporto tra scienza, società e politica, che si complica ancora di più quando succede un evento catastrofico. Una parte della risposta sta proprio qui: ci si ritrova a interpellare la scienza chiedendole risposte certe e soluzioni nette nei periodi di emergenza, quando invece bisognerebbe lavorare in un modo diverso, teso a far capire il processo che sta dietro alla scienza, nei periodi di “tregua”. Le scienziate e gli scienziati devono continuare a offrire presenza e disponibilità al dialogo, stabilendo relazioni che rendono più facile il processo di comunicazione e diffusione della cultura scientifica. Un punto cruciale è far capire che l’incertezza fa parte della scienza e, ancora più, è un punto di rigore: attraverso l’incertezza, la scienza può generare conoscenze progressivamente più accurate. La scienza dovrebbe comunicare il significato dell’incertezza in modo chiaro e trasparente, spiegando quali sono i dati a disposizione, cosa è chiaro e cosa ancora non lo è nel quadro di conoscenza, quali ipotesi sono plausibili e quali no. La politica ha il compito di prendere decisioni anche quando i dati scientifici sono incerti: si tratta di prendere decisioni basate sulle migliori evidenze disponibili, bilanciando rischi e benefici, usando la scienza come bussola».

L’adattamento

Decisioni che riguardano la mitigazione, ma che devono prevedere anche un migliore e più attivo adattamento. «I due aspetti non possono che procedere insieme se vogliamo che siano efficaci e che si “rinforzino” a vicenda, come nelle cosidette strategie “win-win”», fa notare la professoressa Palazzi. Più tardiamo nella mitigazione, più gli sforzi di adattamento saranno «vani», proprio «perché non riusciremo a stare dietro a un clima che cambia troppo in fretta in molteplici suoi effetti». Pertanto, sottolinea ancora, «occorre immediatamente e senza ulteriori rallentamenti ridurre le emissioni di gas serra antropiche e azzerarle in modo netto quanto prima - l’ideale sarebbe alla metà di questo secolo -, e contemporaneamente agire con un adattamento mirato e locale laddove gli effetti del riscaldamento globale sono già in atto e provocano danni, al fine di minimizzarli. Se rinunciamo alla mitigazione, pensando erroneamente che sia contraria al progresso e al benessere e che arriverà una qualche tecnologia miracolosa a salvarci, per investire solo in adattamento, avremo perso la partita. Anche perché questa è una partita in cui o si vince tutti o nessuno». O tutti o nessuno. Potrebbe anche essere questo, lo slogan della COP che si apre oggi a Baku. Come da ogni altro appuntamento di questo tipo, attendiamo anche nuove speranze - come spiegava la professoressa - dalla COP29. Con lo sguardo fisso a quella soglia, quel +1,5°C che sembra ormai sfuggire via. «Anche se con le attuali politiche climatiche siamo proiettati verso un aumento della temperatura a fine secolo rispetto ai livelli pre-industriali che non rientra nei limiti di sicurezza, l’obiettivo di restare entro la soglia sicura dei +1,5°C - ora siamo a circa +1,2°C -, è raggiungibile da un punto di vista tecnico. Lo dice chiaramente l’Emissions Gap Report 2024. L’obiettivo è realizzabile a patto che i Paesi che rappresentano oggi le economie più forti e responsabili del 75% delle emissioni di gas serra si impegnino davvero, con sforzi di mitigazione climatica e abbandono delle fonti energetiche fossili. Senza ovviamente trascurare l’adattamento, che è e sarà sempre più importante, soprattutto - ma non solo - in vista dei cambiamenti negli eventi meteorologici estremi cui stiamo assistendo».