Siamo stati al concerto degli Oasis a Manchester, ed è stato bellissimo

A un certo punto, nessuno ha più guardato il palco di Heaton Park, area verde a nord del centro di Manchester. Non perché fosse lontano, per chi non era fra le prime file. No, nessuno ha più guardato il palco perché, banalmente, gli Oasis erano (anche) altrove. Erano nel padre di Leicester che ha trascinato i figli al concerto, «così finalmente anche loro sanno che cosa si prova». In un’improbabile, e visibilmente ebbra, coppia di fratelli di Nottingham. In uno scapestrato di Hull che, per capirlo, è stato necessario rispolverare l’inglese imparato nei pub. Negli abbracci improvvisi e sinceri fra perfetti sconosciuti. In due asiatici travolti dagli eventi e sopraffatti dal momento. Nelle 80 mila persone che, in equilibrio precario fra felicità e commozione, nostalgia e ritrovata gioventù, hanno cantato a squarciagola ogni singola canzone che Liam e Noel Gallagher hanno messo in scaletta: da Hello sparata in apertura a Champagne Supernova, accompagnata dai fuochi d’artificio, passando per i grandi classici Nineties del repertorio. Le hanno fatte tutte, del periodo d’oro, gli anni Novanta, tranne Columbia. Pazienza. Sono bastate Some Might Say, Cigarettes & Alcohol, Live Forever, Don’t Look Back In Anger e Wonderwall, volendo citare le più «sentite» dal pubblico, per tacere di Slide Away.
La reunion degli Oasis, sin dal suo annuncio in pompa magna, è stata oggetto di critiche, anche aspre, e sfottò. Uno su tutti: il divorzio di Noel è stato economicamente molto pesante e, per questo, andava rinforzato il portafogli. Quanto alle critiche, sono legate principalmente all’aspetto commerciale dell’intera operazione: il cachet riconosciuto alla band, le polemiche attorno al dynamic pricing applicato durante la vendita dei biglietti, la partnership con Adidas tradottasi in una linea di magliette, felpe e altri indumenti dal prezzo certo non popolare. Tutto vero. Eppure, c’era e c’è dell’altro. Se 80 mila persone hanno cantato, dall’inizio alla fine, canzoni che nella maggior parte dei casi hanno superato i trent’anni, se anche i più giovani si sono uniti in questo rito collettivo e celebrativo, significa che gli Oasis sono altresì una questione di identità, condivisione, fede anche volendo allargare il discorso. Significa che il senso di questa reunion andava e va ben al di là del mero aspetto commerciale e di ciò che la band guadagnerà, ad esempio, da Adidas. Una delle scene più belle, nel marasma di Heaton Park, è quella di un ragazzone sulla quarantina. Quando sono partite le note di Stand By Me è scoppiato a piangere. Lacrime in parte nascoste dagli occhiali da sole, ma comunque visibili. E reali. Segno, appunto, che ognuno di noi ha dato al ritorno dei fratelli Gallagher un senso più profondo, sincero, genuino. Un senso strettamente e inevitabilmente legato a ciò che è stato, ma anche all’oggi.
Vedere gli Oasis a Manchester, nella loro Manchester, città che rispetto al suo passato grigio e industriale è sì migliorata ma è rimasta lontana dalla bellezza vera, è stato al tempo stesso entusiasmante e rivelatore. Entusiasmante perché, in Inghilterra, e soprattutto nella città natale dei Gallagher, gli Oasis sono un’esperienza ancora più intensa e coinvolgente. Una grande, grandissima festa, appunto, carica di nostalgia. Rivelatore perché, nonostante le critiche di certa stampa nel corso degli anni, questa band ha saputo descrivere e definire una generazione, quella di mezzo se vogliamo, apparentemente senza ideali ma, in realtà, con la medesima voglia di cambiare il mondo delle generazioni precedenti. Una generazione colpita alla pancia ma anche al cuore dalle canzoni, da queste canzoni. Canzoni, nel frattempo, diventate patrimonio collettivo. Perfino Damon Albarn, di fronte a tutto questo, di fronte ai sentimenti, forti, che stanno accompagnando la reunion dei Gallagher, ha ammesso fra le righe che non c’è mai stata partita, tanto negli anni Novanta quanto ora. Nonostante, si badi, i Blur fossero e siano musicalmente più bravi e preparati.

Nel lasciare Heaton Park, con compostezza, e con gli occhi ancora lucidi, c’è chi si è lasciato andare in un canto liberatorio, chi ha finto di cercare il suo cane per guadagnare spazio nella fila e chi, ancora, si è riguardato i video girati con il cellulare. Tutti, ma proprio tutti, avevano la medesima espressione. Quella di chi, per anni, ha aspettato un momento del genere. E che, quando il momento è arrivato, se l’è goduto cercando di farlo suo per sempre. «È successo, è successo, è successo davvero» ha urlato per tutta la sera uno dei due fratelli di Nottingham. In un’Inghilterra che non si è mai davvero ritrovata dopo la Brexit, attraversata com’è da spinte isolazioniste e divisioni, gli Oasis sono tornati per ricordare a tutti noi che il Regno Unito, tempo fa, era diverso. E, forse, più bello. C’è una frase, attribuita a Benjamin Disraeli, tornata alla mente in queste ore: «Quello che Manchester fa oggi, il mondo lo farà domani». Di sicuro, quello che gli Oasis hanno fatto a Heaton Park, a nord del centro, è destinato a rimanere. Nella memoria di chi c’era. Ma non solo.