«Siamo un angolo della Milano che non c’è più»

Zona cuscinetto che si staglia tra le popolari viale Jenner, piazzale Maciachini, via Farini e la più nobile area universitaria della Bicocca, via Carlo Imbonati è certamente uno dei quartieri che testimoniano in modo più fedele il profondo mutamento del tessuto sociale che ha preso piede nell’ultimo trentennio all’ombra della Madonnina. I segnali del cambiamento di questi anni sono sotto gli occhi di tutti: i titolari dei negozi e delle attività commerciali non sono più né milanesi, né brianzoli e neppure meridionali. Sono in prevalenza stranieri extra comunitari: cinesi, egiziani, tunisini, marocchini, bengalesi, sudamericani. E l’elenco potrebbe essere più lungo. Sono pochi gli italiani rimasti ad esercitare le attività di un tempo nei quartieri più popolari del capoluogo lombardo. L’artigianato autoctono è praticamente scomparso: i sarti italiani hanno lasciato spazio a quelli cinesi, i piccoli supermercati gestiti da asiatici e bengalesi hanno rimpiazzato i minimarket nostrani di un tempo, i negozi di kebab e di sushi sono diventati più numerosi dei bar pizzeria (in prevalenza, comunque, in mani cinesi). Questa stessa «fotografia» emerge un po’ in tutti i settori con poche eccezioni, a partire da quello dei servizi (dove la presenza degli italiani è fisiologicamente più visibile), includendo naturalmente la ristorazione.


In questo quadro di grande mutamento esistono, certo, angoli di Milano che resistono ai radicali sviluppi avvenuti nella società a partire, con maggiore intensità, dal nuovo millennio. È il caso della trattoria bar di Amedeo e Gilberto Manfredi, esercizio pubblico che i due fratelli continuano a gestire da anni, con passione e apprezzamento, insieme alle consorti Rodolfa e Patrizia, per offrire una cucina casalinga tipicamente lombarda. Nel loro spartano locale al civico 11 di via Imbonati, il tempo pare essersi fermato. Fondato dal padre Amilcare (oggi ultranovantenne) nel lontano 1960, il ristorante continua a funzionare come una volta. «Oggi è un altro mondo rispetto soltanto a pochi anni fa - spiega Amedeo, classe 1954, con indosso il camice di lavoro -. La nostra clientela è composta prevalentemente da italiani che apprezzano la cucina di casa nostra a prezzi modici».

Ma i tempi, si diceva, sono profondamente cambiati. E anche in questo microcosmo di una Milano d’altri tempi (rimpianta un po’ da tutti coloro che hanno vissuto gli «anni d’oro») la modernità legata alla digitalizzazione, ha creato qualche effetto sorprendente. «Nelle nostre quattro mura, serviamo spesso anche turisti cinesi con il telefonino e le app aperte e visibili sullo schermo, che ci hanno trovati grazie a Internet. Ci chiedono di poter mangiare questo o quel piatto, senza parlare una parola d’italiano. Fotografano tutto e fanno video da postare sui loro social. Tablet alla mano, sono interessati alla nostra cultura e identità. E girano tutto lo Stivale per scoprirla».


La trattoria, situata a un tiro di schioppo anche dalla popolosa zona Niguarda, è insomma anche un avamposto italiano rimasto a testimoniare una società in via di estinzione dove i Brambilla sono scomparsi per fare posto ai Wong, Wu e Muhammad. «Con gli asiatici e gli arabi a noi vicini c’è reciproco rispetto, parlare di amicizia è però esagerato. Ognuno, qui, fa la sua vita e pensa ai fatti propri. Noi siamo contenti di essere rimasti a fare il nostro lavoro con lo stesso spirito di allora anche se ciò che ci circonda non è più uguale». La clientela viene anche dalle zone limitrofe. «Gli italiani nelle vicine case di cortile si sono trasferiti nell’hinterland cittadino: a Settala, Opera, Bresso – continua Amedeo -. Qui un tempo si parlava, si discuteva sul calcio o sulla boxe, si cantava, c’era allegria. Ogni tanto qualcuno viene a trovarci per ricordare quel passato comune. Oggi si mangia e si va». Gilberto, classe 1957, fornisce una spiegazione legata anche all’evoluzione nel settore occupazionale. «I turni di lavoro nelle aziende limitrofe che impiegavano molti operai e impiegati si sono ridotti. Le grandi società hanno cambiato sede e il personale, che un tempo - dopo che suonava il campanello del pranzo - veniva numeroso, mangia in piedi il panino sotto il posto di lavoro o si reca nei numerosi fast food della zona».
Il cambiamento è stato avvertito in modo più marcato, come anche in altre aree cittadine o centri del Nord Italia, a partire dal 2000. «Nei decenni – continua Amedeo – abbiamo assistito all’immigrazione del Sud e da altre province verso la grande Milano. Noi stessi siamo originari di Cremona, poi l’immigrazione di massa da paesi lontani e il cambiamento lento, ma progressivo, che prosegue tutt’oggi». Cosa ricorda di quegli anni? «Gli adulti, come detto, venivano da noi per pranzare. C’erano la Carlo Erba, la Danzas - che ha cambiato sede -, la Domenichelli trasporti, poi fallita. Ogni giorno, invece, gli anziani, si fermavano al bar o in trattoria fino a tarda sera. Parlavano in dialetto, discutevano del più e del meno, i calici di vino erano sempre pieni. Le carte erano il loro passatempo preferito. Era uno spettacolo ascoltarli, anche se eravamo sempre molto indaffarati. Altra epoca!».
Dai tempi in cui il «sciur» Amilcare, nel lontano 1960, fondò la trattoria con la moglie, la «sciura» Maria – quest’ultima «passata a miglior vita alcuni anni fa» - sono trascorsi giusti sessant’anni. «Noi, come tutti i ragazzi, andavamo a scuola e davamo una mano ai genitori ai tavoli o dietro al banco. C’era molta solidarietà nelle famiglie italiane. Siamo ancora qui. Si lavora, si vive, si va avanti. Noi non ci arrendiamo».