La storia

«Sono caduto nella medicina da piccolo, come Obelix nella pozione magica»

Il dottor Michael Llamas, direttore sanitario della Carità, va oltre il coronavirus e si racconta – Dall’amore per la professione ai legami con i suoi pazienti e con la famiglia
Il dottor Llamas è cresciuto a Bellinzona, dove la famiglia gestiva il bar Stadio. ©CdT/Chiara Zocchetti
Barbara Gianetti Lorenzetti
Barbara Gianetti Lorenzetti
26.11.2020 10:52

Non avrebbe potuto fare proprio nient’altro, il dottor Michael Llamas. «Sono caduto nella medicina da piccolo, come Obelix nella pozione magica», afferma sorridendo. In questi mesi abbiamo imparato a conoscere il direttore sanitario dell’ospedale La Carità di Locarno nel pieno dell’emergenza coronavirus. Ora, però, gli abbiamo chiesto di mettere un attimo da parte la COVID-19 per parlarci un po’ di sé. E della medicina, ovviamente, perché, assieme alla famiglia, è il filo conduttore della sua vita.

La tradizione di famiglia

In realtà nel futuro del giovane Michael avrebbe potuto aprirsi un’affidabile carriera da esercente. «I miei genitori, Aurelia e Miguel, – racconta – hanno gestito per lungo tempo il bar Stadio di Bellinzona, dietro il cui bancone, in precedenza, aveva lavorato anche nonna Luisa». Un ritrovo conosciutissimo, dunque, e la possibilità di continuare una consolidata tradizione di famiglia. Ma non è andata così. «Non posso dire cosa abbia fatto scattare in me la passione per la medicina. So solo che, fin da quando mi ricordo, il corpo umano e il suo funzionamento mi hanno sempre intrigato. In realtà nell’infanzia e nell’adolescenza non avevo mai pensato davvero di fare il medico. Però, per esempio, durante le lezioni di informatica al liceo mi ero intestardito a voler creare un programma che imitasse il funzionamento del cuore. E, naturalmente, non ci sono riuscito...», ricorda divertito. Poi arriva il momento delle scelte fondamentali e, «appunto come Obelix caduto nella pozione magica (il forzuto eroe gallico, inventato dai grandi autori Uderzo e Goscinny, ndr.), non ho avuto dubbi, quasi fossi predestinato per quella via».

Gli intensi anni di Losanna

Si parte così per l’università di Losanna ed è amore fin dalle prime ore di lezione. «A mio padre dissi che non vedevo proprio cos’altro avrei potuto fare...». Ma non si pensi che il futuro dottor Llamas fosse un fanatico. «Tutt’altro. La medicina era materia di studio, ma appena fuori dalle aule mi piaceva immergermi anche in mondi diversi. Tant’è vero che andai ad abitare con studenti di altre facoltà». Si discuteva, dunque, di storia («della quale sono molto appassionato»), di filosofia, di letteratura. «Era un universo molto stimolante, quello delle scienze umane. Peraltro non ho mai considerato la medicina una vera e propria scienza. È, secondo me, un mestiere che si impara, come qualsiasi altro. Si apprendono un sacco di nozioni, si mette fieno in cascina. Poi – però – bisogna capire come usarlo». Ed è quando si è catapultati in corsia, a tu per tu con il paziente. «Dove, fra l’altro – prosegue il nostro interlocutore – ti accorgi che quanto sai è sempre temporaneo. Ogni giorno il medico è chiamato ad abbandonare vecchie certezze per abbracciare nuovi dubbi». Un punto saldo, però, esiste. Ed è la delicata umanità che riscalda (o che dovrebbe sempre riscaldare) il rapporto con il paziente. «Per comprenderlo veramente (e per capire la sua malattia) lo devi toccare, ascoltare, accarezzare. A volte, addirittura, annusare».

Andare oltre la tecnologia

Una dimensione che non si ferma nemmeno di fronte all’alta tecnologia di un reparto di cure intensive, nelle quali Llamas è specialista. «Anzi. Anche, e forse soprattutto, in quel caso, il contatto umano non deve mai venire meno, nonostante il fondamentale apporto delle macchine. Tant’è vero che, quando il tuo paziente peggiora, il miglior modo per comprenderne i motivi è il contatto fisico con lui». E che le persone siano importanti per il direttore sanitario della Carità lo si intuisce anche quando racconta della sua esperienza – una delle prime dopo gli studi – all’ospedale di Acquarossa. «Lassù, sotto la guida dei primari Valerio Saglini e poi Giuseppe Allegranza, ho sentito fortemente il senso di appartenenza alla comunità». Tanto da accarezzare il sogno di aprire uno studio in valle, diventando un medico di condotta bleniese. Ma, anche in quel caso, le cose sono andate diversamente. «Sotto la spinta di quello che definirei il mio mentore. Spesso nella vita di un medico vi è una figura iconica, alla quale si finisce per ispirarsi. Per me è stato il dottor Andreas Perren, primario di medicina intensiva al San Giovanni. Fu lui a consigliarmi di partire da Acquarossa per l’ospedale universitario di Ginevra, dove, per sette anni, ho lavorato come capo clinica». Un’esperienza arricchente, che si è mescolata a quella, fondamentale, della famiglia e della paternità. «Mentre eravamo là – ricorda il medico – sono nate le nostre due figlie». In riva al Lemano, verrebbe da pensare. E invece no. «Rigorosamente – sorride – all’ospedale di Bellinzona. Abbiamo voluto che i parti vi avvenissero per una questione di radici...». Altro argomento sensibile, quest’ultimo. «Il fatto di esser nato in Ticino – chiarisce Llamas – lo devo a mio nonno, che lasciò l’estremo nord della Spagna per sfuggire alla dittatura franchista. Arrivò a Ginevra e poi si spostò in Ticino per lavorare alla Monteforno di Bodio. Con moglie e tre figli. Uno dei quali, mio padre, incontrò qui una ragazza proveniente dall’estremo sud spagnolo. E da quell’unione sono nato io».

Un pizzico di follia locarnese

Origini lontane, insomma, che hanno forse reso più intensa l’esigenza di identificarsi con un luogo:_il Ticino. «Dal quale – alla fine – non sono riuscito a stare lontano, pur consapevole che ciò mi avrebbe precluso la carriera universitaria». L’occasione per il rientro è stato il pensionamento del dottor Guido Domenighetti, che per un trentennio aveva guidato le cure intensive della Carità. «Sono sbarcato in riva al Verbano – ricorda il nostro interlocutore – senza conoscere troppo bene né l’ospedale né il Locarnese. E mi ci sono subito ambientato, perché in entrambi ho trovato quel pizzico di follia che caratterizza anche me. Ho l’impressione che qui si sia capaci di non prendersi troppo sul serio e si guardi alla vita con una giusta dose di distacco e leggerezza. E poi trovo fondamentale la presenza dell’acqua. L’ho sempre amata e cercata. Per me è un antidepressivo naturale».

Saper gustare gli altri

L’altro toccasana – il principale, certo – è la famiglia, sono la moglie Nathalie e le figlie Martina (14 anni) e Marisol (13). Con loro il dottor Llamas trascorre ogni momento libero. «Senza necessariamente fare qualcosa di particolare. A volte basta stare assieme, così, in silenzio. Ognuno preso da qualcosa di suo, eppure presente agli altri. È importante (e non sempre riusciamo a farlo) saper gustare davvero la presenza di chi ci sta accanto».