L'intervista

«Spero che il Ticino non smetta di essere attento ai più deboli»

Il rettore del seminario "San Carlo", don Emanuele Di Marco, riflette sui temi d'attualità in prossimità del Natale 2025
Don Emanuele Di Marco con l'Ape della solidarietà. ©Carlo Reguzzi
Dario Campione
24.12.2025 06:00

Don Emanuele Di Marco, 43 anni, è da pochi mesi rettore del seminario diocesano «San Carlo» e responsabile dell’Ufficio istruzione religiosa scolastica, dopo essere stato a lungo direttore dell’oratorio di Lugano. Ordinato sacerdote nel 2011, è anche titolare dei corsi di Teologia del matrimonio e Teologia pastorale alla Facoltà teologica affiliata all’USI.

Don Emanuele, che Natale ci apprestiamo a vivere, in questa fine 2025?
«Sebbene abbia affrontato un’umanità diversa per 2mila anni, questa solennità mantiene sempre tratti comuni. Ma è anche dentro la storia che stiamo vivendo. Ecco, allora, il tema della pace che ci colpisce, che sollecita l’azione del nostro tempo. Una grande sfida. Il Vangelo ci dice “Gloria a Dio nei cieli”, ma “Pace in Terra”. Credo che questo sia il messaggio che ci raggiunge in modo molto, molto concreto».

Lugano e il Ticino sono territori più ricchi di altri, nei quali magari la dimensione del Natale è vissuta in maniera meno spirituale. È davvero così?
«Credo che, nel Natale, due anime convivano tra loro. Una, più secolare, più commerciale, diventata anche tradizione: penso, ad esempio, ai mercatini, divenuti occasione di incontro e di scambio. Una dimensione che è sempre molto forte, e non può essere negata. Con essa, però, resiste e si afferma anche un’anima religiosa, di devozione: la ricerca di un valore più profondo della festa. Vedo tante iniziative solidali intorno al Natale in Ticino, grazie anche all’associazione di cui mi occupo (“Un cuore a tre ruote” per l’aiuto alle famiglie in difficoltà, ndr). Trovo che ci sia terreno fertile nel quale cresce il cuore di ciascuno. Se si vuole, anche alle nostre latitudini è possibile riempire la festa di cose diverse. Vale la pena ribadirlo, e secondo me andrebbe pure valorizzato».

L’incarico di direttore del seminario è giunto, forse, nel momento storicamente più difficile. Le vocazioni sono un problema da tanto tempo per la Chiesa cattolica. Lei come pensa di agire? È possibile alimentare le vocazioni in una realtà come la nostra?
«Sì, è vero. I numeri sono cambiati, anche nelle nazioni con una forte tradizione cattolica: penso all’Italia, alla Polonia, dove c’è un grande calo di seminaristi. I motivi sono molti: dalla secolarizzazione, a una diffusa distanza dalla Chiesa, da ciò che è istituzione. Tuttavia, ritengo che ci sia la possibilità di essere condotti a comprendere la profondità, la radicalità positiva della scelta del sacerdozio. Mi impressiona sempre quanto siano ricercate le figure spirituali, per un cammino di fede o anche soltanto per una chiacchierata. La strada migliore per una pastorale delle vocazioni, allora, è far conoscere la bellezza del sacerdozio, è incontrare sacerdoti che sono felici di esserlo, persone che dalla mattina alla sera vivono questa bella esperienza; l’esperienza del sacerdote che serve, senza sentirne il peso».

Il 2025 è stato un anno straordinario per la Chiesa. Un anno giubilare, ma anche l’anno in cui è morto papa Francesco ed è stato eletto papa Leone XIV. Quali ricordi conserverà di questo tempo?
«Sicuramente l’apertura del giubileo, con il suo motto “Pellegrini di speranza”, che ha perfettamente sintetizzato l’intento di papa Francesco: riconoscere un’umanità in cammino. Poi, ovviamente, tutto ciò che ha riguardato la morte dello stesso pontefice argentino. La Pasqua, con quell’ultimo giro della piazza; il giorno dopo, nel quale è mancato; i funerali; il conclave. Sono stati tutti eventi molto, molto sentiti. E mi ha colpito come, in un’epoca così mediatizzata, sia stata riservata grande attenzione, e anche curiosità, a riti comunque secolari. Penso sia parte di quel bisogno di qualcosa di profondo di cui parlavamo prima».

E poi l’arrivo di Leone XIV, il primo pontefice statunitense.
«Sì, certo. Di papa Leone XIV mi ha impressionato l’attenzione ai testi. Da quelli scritti, come la recente lettera per la Giornata mondiale della pace, ai discorsi, sempre profondi. Papa Leone è molto riflessivo nelle sue parole, in quello che dice e in quello che scrive. Trovo che sia un bell’insegnamento. Dà anche valore a ciò che la Chiesa dice, e forza a tutti noi che siamo chiamati a trasmetterlo».

C’è stato un salto tra Papa Francesco e Papa Leone? Ha avvertito anche lei un cambiamento reale, oppure pensa che sia prevalsa la continuità?
«Non riconoscere un’evoluzione sarebbe un po’ banalizzare; il profilo delle persone è diverso, ed è diverso il loro modo di comunicare. È differente anche il modo di focalizzarsi e di affrontare alcuni temi. La continuità tra i due pontefici c’è nella misura in cui il successore raccoglie un testimone ma esercita il ministero con la propria personalità».

Ma dal punto di vista del messaggio della pastorale, è cambiato qualcosa o si prosegue sulla direzione che ha dato Papa Francesco?
«Dipende dai temi. Su alcuni abbiamo visto una certa continuità, su altri ci sono sottolineature diverse. L’ecologia, il rispetto del creato, la pace segnano una continuità molto forte. Sulla sinodalità o sul coinvolgimento delle comunità, Papa Leone ha portato di più la sua esperienza, un altro punto di vista».

La diocesi di Lugano è ormai da oltre tre anni retta da un amministratore apostolico. Lei pensa che sia giunto il momento di avere un vescovo ordinario? Dentro il presbiterio luganese ci sono, sul punto, opinioni differenti.
«Come sottolinea anche lei, su questo mi è sempre difficile dire qualcosa perché il tema è molto divisivo. Io mi auguro che le differenze possano trovare comunione. Il rischio, su questo argomento così come su altri, è che ci siano tante opinioni e che si fatichi a trovare un principio essenziale, che è la comunione. La Chiesa diocesana è molto viva, è una Chiesa con tante proposte, tante iniziative, tante belle realtà. Bisogna continuare a camminare insieme».

A proposito di cammino, la lettera post-giubilare dell’amministratore apostolico indica la necessità di fare questo cammino in forme nuove: che cosa vuole dire, esattamente, monsignor de Raemy?
«Non ne ho parlato con lui personalmente. Penso che ci sia, nelle parole del vescovo, il desiderio di non soffocare nuove strade: una pastorale sui social, ad esempio, o l’avvicinamento di alcune realtà giovanili; o, ancora, inedite forme caritatevoli. La Chiesa, avendo una grande storia e una grande tradizione anche nel nostro cantone, rischia talvolta di fermarsi su meccanismi che si sono consolidati nel tempo. Ecco perché sono da incentivare e da apprezzare le nuove proposte».

Che cosa si aspetta per il 2026?
«Se posso dire una cosa che mi sta veramente a cuore, mi auguro, sogno che anche il nostro Ticino, che ha tantissime risorse e una popolazione generosissima, non cessi mai di essere attenta alle fasce più deboli, le quali purtroppo non sono poche. Ci sono fragilità nel nostro cantone che riguardano i giovani, le persone disagiate o sole, gli anziani. Fragilità e povertà che possiamo affrontare insieme. Penso che questa sia una delle grandi sfide per il nostro piccolo, grande Ticino».