«Suicida a 14 anni? Dobbiamo capire i nostri ragazzi»

Negli scorsi giorni, in un comune della Provincia di Latina, in Italia, un tragico evento ha scosso la comunità: Paolo, un quattordicenne, si è tolto la vita nella solitudine della sua cameretta, poche ore prima dell’inizio del nuovo anno scolastico. I genitori parlano di una serie interminabile di episodi di bullismo, una via crucis iniziata dalle scuole elementari. Mentre gli inquirenti indagano per chiarire le responsabilità di questo dramma, ci si interroga su che tipo di mondo vivano oggi gli adolescenti e su quanto realmente comprendiamo noi adulti della loro realtà. Abbiamo approfondito il tema con Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, che sarà uno degli ospiti della sesta edizione di Sconfinare Festival, (dal 9 al 12 ottobre prossimi in Piazza del Sole a Bellinzona).
Matteo Lancini, cosa dice lo psicoterapeuta di fronte ad un dramma come quello di Paolo, che ha deciso di togliersi la vita a soli quattordici anni?
«Sempre più spesso la disperazione delle nuove generazioni diventa gesto violento: o verso gli altri o verso se stessi. I suicidi hanno sempre dei fattori precipitanti, ma non possono mai essere attribuiti a un avvenimento unico. Più in generale e andando oltre al dramma di questo ragazzino, penso che sia sempre più necessario parlare di suicidio, cosa che non facciamo quasi mai».
Perché?
«Lo dico perché, occupandomi da sempre di bullismo a scuola e avendo preso parte dei primi tavoli di lavoro nati in Lombardia attorno a questo tema, ritengo di conoscere bene il fenomeno. Non riesco però a tollerare certe letture del suicidio. Mi spiego meglio: quando un ragazzo si toglie la vita dopo un brutto voto oppure dopo una bocciatura - e ce ne sono diversi - non si può dire che «l’ha ucciso la scuola», perché apparirebbe come una semplificazione. Anzi: a quel punto si direbbe che alla base del gesto estremo ci sarebbe altro. La situazione cambia quando un ragazzo si suicida a causa del bullismo: in questo caso, il gesto è sempre collegato alla crudeltà dei coetanei, e nessuno ne sottovaluta l’impatto».
Due pesi, due misure?
«Esatto. Questo fenomeno rappresenta un movimento di radicalizzazione delle posizioni degli adulti, i quali tendono a non riconoscere che ciò che accade ai giovani è spesso influenzato dalle loro scelte politiche, genitoriali e scolastiche. Invece di assumersi la responsabilità, preferiscono puntare il dito contro i coetanei dei loro figli e internet. Una reazione dovuta alla loro stessa fragilità ma che ritengo molto pericolosa, perché è un atteggiamento che non consente mai agli adulti di fare qualcosa di proprio, di introdurre qualche intervento privativo verso loro stessi. Secondo me è l’alfabetizzazione emotiva degli adulti la vera emergenza di oggi, più che quella dei ragazzi».
Come scongiurare il suicidio tra i giovani?
«Il suicidio è presente fisiologicamente nel passaggio adolescenziale e noi sappiamo che negli ultimi anni molti ragazzi faticano a parlarne. Se genitori o docenti affrontassero il tema più spesso, a scuola o in famiglia, farebbero un prezioso lavoro di prevenzione. Invece è un argomento tabù. Anzi: se ne si discute con i giovani, si rischia di venir accusati di istigazione. Ormai viviamo in una società in cui gli adulti rimuovono le emozioni negative. Mentre sono impegnati a pensare soltanto a loro stessi, si autoconvincono di essere molto più attenti alle esigenze dei loro figli rispetto ai loro padri o ai loro nonni. Ma così non è. Noi proteggiamo i nostri figli dalle emozioni negative per evitare di viverle noi stessi di riflesso».
Dunque è colpa di noi adulti...
«Questa non è una questione di colpe: ci siamo dentro tutti. Oggi esiste una deresponsabilizzazione da parte degli adulti, che li porta a sostenere che, in una mondo governato da guerre e da corpi sbriciolati dalle bombe, la violenza giovanile dipenderebbe dai videogiochi o da internet. Mi chiedo se gli adulti non stiano vivendo una dissociazione tra reale e virtuale: nel reale fanno tutto ciò che vogliono per poi sostenere che la colpa del malessere dei loro figli è della Rete. La società del bullismo è la società della prevaricazione. La stessa prepotenza che i ragazzi vedono in certe trasmissioni televisive o in politica. Nella vita reale. Non nei videogames».
Quanto capiamo noi adulti del mondo digitale e in particolare dei social rispetto agli adolescenti?
«Nel mio settore vedo specialisti che lanciano appelli sui social esortando i genitori di mezzo mondo a limitare l’uso delle piattaforme digitali. Oggi gli insegnanti più in vista, non sono quelli che lavorano a testa bassa, ma piuttosto coloro che, senza pudore alcuno, vendono libri agitando lo spauracchio dei social, diventando persino influencers. Abbiamo creato una cultura dei social, per poi sostenere che Instagram, tikTok e via dicendo fanno male ai giovani. Una vera ipocrisia. La realtà è che i social hanno modificato (dominandolo) il mondo, motivo per cui ho proposto al Senato italiano di vietarli tutti, dalla nascita fino ai novant’anni. Tuttavia, una tale affermazione non ti rende molto popolare agli occhi degli elettori, mentre proibire Instagram o Tik Tok dai dodici ai diciott’anni ti fa vincere le elezioni».
Quanto sono importanti serie tv come Adolescence, la miniserie che offre un ritratto crudo dell’adolescenza moderna, per capire cosa sta succedendo ai nostri figli?
«Sono importanti. Le puntate della serie tv inglese offrono uno spaccato di una realtà in cui non figurano adulti significativi. Di fronte a questa assenza, entra in scena Internet. È quando si sentono soli in mezzo agli adulti, che i ragazzi cercano rifugio in Internet, non viceversa. Internet è il luogo dove riducono la solitudine che sperimentano ogni giorno. È vero: oggi i figli sono voluti e non dati alla luce per dovere, come per le generazioni passate. Ma c’è una clausola: i ragazzi non possono esprimere emozioni che disturbano, costringendo l’adulto a cambiar programma. Paura, tristezza o rabbia sono bandite. L’adulto vuole tutto: alimenta l’individualismo e chiede ai propri figli di non provare emozioni se non quelle che li fanno sentire adeguati».
«Corpi che parlano: come stare in relazione con gli adolescenti» è il titolo del suo intervento previsto nell’ambito di Sconfinare Festival previsto a Bellinzona il prossimo ottobre. Può fornirci qualche anticipazione?
«A Bellinzona mi concentrerò sulle condizioni giuste per costruire una relazione autentica con l’adolescente. Proverò a spiegare, prendendo spunto dal mio ultimo libro «Chiamami adulto. Come stare in relazione con gli adolescenti» che cosa vuole dire oggi provare a stare in una relazione, senza fornire ricette applicative, perché i figli non sono tutti uguali. Ricordo che una relazione autentica, è ciò che più si avvicina alla felicità in questa società dissociata ed individualista».