Sul perdono e sui «mea culpa» le religioni si contraddicono?

«Ho molto odiato nella mia vita precedente. Ora non odio più. Non perdono, non posso perdonare, ma non odio. Se si è madre non si può odiare». Parola di Liliana Segre che affronta in questo modo un tema spinoso per le grandi religioni, divise tra giustizia divina e misericordia celeste. Ma Dio punisce o perdona?
Argomento delicato quello del perdono nelle religioni: ci sarà modo di capirne di più mercoledì prossimo grazie a un incontro pubblico tra esperti organizzato dalla Goren Monti Ferrari Foundation in collaborazione con il Corriere del Ticino, la Facoltà di Teologia, l’USI e con il Patrocinio del Comune di Lugano.

La presa di posizione di Liliana Segre (sopra, nella foto CdT) risale a pochi giorni fa. L’ha mandata via video il 21 gennaio al convegno della Polizia italiana Le vittime dell’odio. E somiglia molto ad analoghe affermazioni di altri ebrei che hanno conosciuto - direttamente o indirettamente - l’orrore dell’Olocausto.
Posizione umanamente comprensibilissima. Ma è sostenibile la mancanza di perdono dal punto di vista della religione ebraica? Sbagliando, l’istinto direbbe di sì. La legge del Taglione rappresenta la misura esemplare di giustizia dei testi ebraici della Bibbia. «Occhio per occhio, dente per dente», si legge nel libro dell’Esodo, «mano per mano, piede per piede, scottatura per scottatura, ferita per ferita, contusione per contusione. Se uno colpisce l’occhio del suo schiavo o l’occhio della sua schiava e glielo fa perdere, li lascerà andare liberi in compenso dell’occhio perduto. Se fa cadere un dente al suo schiavo o un dente alla sua schiava, li lascerà andare liberi in compenso del dente perduto».


La Teshuvah
L’esigenza di riequilibrare i torti con azioni riparatrici o punitive equivalenti convive tuttavia con un forte senso del perdono. È il concetto di Teshuvah che, leggiamo nel sito ebrei.net, «significa propriamente ritorno o anche risposta. Il pentimento per l’ebraismo si presenta dunque come un ritorno a una condizione di purezza originaria, o come una risposta alle sollecitazioni che vengono dalla coscienza. Si tratta di una vera e propria conversione, non tanto di un pentimento nel senso di cambiare idea, dicendo ’’ho sbagliato, non faccio questo, ma piuttosto faccio quello’’. E se di conversione si tratta, bisogna cambiare completamente, convertirsi».

Perdono come conversione personale, più che come punizione, quindi. E quando le colpe sono collettive e mostruose, come l’Olocausto, appunto? È perdonabile la Shoah? Esiste una vera alternativa al perdono? Se si dovesse applicare la legge del Taglione no: ci vorrebbe un altrettanto mostruoso contro-genocidio. Ma perdonare resta una scelta ostica. L’ex presidente del Parlamento europeo Simone Veil, anch’essa ex deportata ad Auschwitz (sopra, il campo oggi, © CdT/Fabio Pontiggia), rispondendo al direttore di «Paris Match» Alain Genestar nel 2004 spiegava: «Per me la questione non si pone in termini di perdono. Io sono vivente, sono qui. Non tocca a me perdonare quando si tratta di 6 milioni di ebrei sterminati. Se si parla di perdono, deve essere in modo globale. E non si può perdonare globalmente ciò che è stato fatto. (...) Non si può perdonare di aver deciso di portare tutti gli ebrei ad Auschwitz per steriminarli». La questione resta aperta anche all’interno del mondo ebraico.
Emblematica una recente risposta al quesito da parte di Riccardo Di Segni, rabbino capo a Roma: «Non esistono deleghe: per cui ciascuno può perdonare il male arrecatogli a chi glielo ha fatto, ammesso che costui o costoro glielo chiedano».
E le proprie colpe?
Ma una riflessione completa su religioni e perdono deve toccare un altro punto delicato: quello della possibilità o della capacità dei vari credo di chiedere scusa per i propri errori. È una questione bollente sollevata, tra un mare di polemiche, dopo l’11 settembre da Barbara Spinelli in un editoriale sulla Stampa il 28 ottobre 2001. «Se c’è una cosa di cui si sente la mancanza, nell’ebraismo – scriveva - è proprio questo: un mea culpa nei confronti di popolazioni e individui che hanno dovuto pagare il prezzo del sangue o dell’esilio per permettere a Israele di esistere. (...) urge un profondo ravvedimento dell’ebraismo: ravvedimento religioso, e terreno. Urge quel mea culpa che fa crudelmente difetto, pronunciato a fronte degli individui palestinesi e in genere dell’Islam. In Israele stesso c’è chi sospetta che il popolo d’Israele, per rigenerarsi, voglia strappare nuovi dolori dai giorni futuri, sognando una specie di secondo olocausto». Parole dure che hanno generato simmetriche reazioni nel mondo ebraico.


La citazione
A ben vedere, lo stesso schema che riguarda la religione ebraica può essere applicato alle altre fedi abramitiche: il Cristianesimo e l’Islam. Nel primo caso il perdono sembra avere un peso specifico superiore a quello che ha presso i fratelli maggiori ebrei. Il Vangelo propone uno «scandaloso» superamento della legge del Taglione. «Avete inteso che fu detto: “Occhio per occhio” e “dente per dente”. Ma io vi dico - e a parlare è Gesù nel Vangelo di Matteo - di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello». Il perdono, nel mondo cristiano, sembra un imperativo categorico, anche se poi viene declinato in modo diverso a seconda delle varie confessioni. Nel cattolicesimo, ad esempio, ha un ruolo preminente il sacramento della penitenza, la confessione, dove il perdono è mediato da un sacerdote. Mentre nelle chiese protestanti il perdono si chiede direttamente a Dio, senza intermediari.

Il Giubileo del 2000
Non è invece mai stato tematizzato, a nostra conoscenza, il tema dell’impossibilità del perdono anche nei casi delle persecuzioni ai danni dei cristiani, che pure nella storia non mancano. Mentre non c’è dubbio che la logica dei «mea culpa» abbia la propria massima espressione nella prassi cattolica degli ultimi decenni. Giovanni Paolo II (nella foto AFP/ PAOLO COCCO) ha indetto un Giubileo, nel 2000, all’insegna di una grandiosa richiesta di perdono dei suoi fedeli per i propri «errori» che spaziavano dalle guerre di religione agli scismi, dalle discriminazioni ai danni delle donne, alle guerre del colonialismo, dalla persecuzione degli ebrei alle divisioni sociali. Una tendenza che ha conosciuti nuovi sviluppi negli ultimi anni, in particolare con i mea culpa per la piaga della pedofilia nel clero. È una tendenza che anche all’interno della Chiesa non tutti capiscono. Alcuni per ragioni di orgoglio identitario, come se le richieste di perdono indebolissero la Chiesa invece di rafforzarla. Altri per motivi più «filosofici»: ha senso, per esempio, chiedere perdono oggi per i mali commessi secoli fa in contesti storici completamente diversi dai nostri, come nelle Crociate?


La pratica dell’Istighfar
Le Crociate - grandi campagne guerresche medievali dei cristiani per strappare agli «infedeli» musulmani le terre dove era nato Cristo - ci portano giocoforza alla terza religione abramitica, l’Islam. Anche qui la percezione del tema sembra semplice e binaria: la legge del Taglione, per esempio, è letteralmente applicata (o coranicamente auspicata) per i ladri, a cui si taglia la mano.
«Mi sembra che, in alcune correnti prevalga un senso di giustizialismo ‘fai da te’. (...) Questa è forse la corrente più politicizzata dell’Islam contemporaneo, quella che viene più conosciuta in Occidente», spiegava tempo fa Yahya Pallavicini, vice presidente della Comunità Religiosa Islamica Italiana. Ma il perdono è una dimensione centrale per i fedeli di Allah. Ogni sura (versetto) del Corano comincia con l’invocazione a Dio, definendolo come essere misericordioso e compassionevole. Individualmente, poi, si pratica l’Istighfar, la confessione dei propri peccati direttamente a Dio (ma se si è offesa un’altra persona, è necessario scusarsi con la vittima).

Scusarsi per le stragi dell’ISIS?
La concessione del perdono ai «nemici» dell’Islam è un tema poco praticato. Mentre i mea culpa nei confronti delle vittime di una parte del mondo musulmano restano un argomento spinoso. Dopo ogni attentato in Occidente, i responsabili delle comunità della diaspora hanno sistematicamente espresso parole di condanna per gli eccidi.
Ma buona parte dei musulmani di casa nostra contesta l’idea di doversi scusare per atti commessi in nome di un Islam deviato nel quale non si riconoscono.
L’APPUNTAMENTO
All’aula magna dell’USI
Mercoledì 12 febbraio dalle 17.30 all’Aula Magna dell’USI di Lugano si discuterà di un tema spinoso e affascinante: “Il mistero del perdono per Ebrei, Cristiani e Musulmani”. L’evento fa parte del ciclo di conferenze “Eva e le altre” ed è organizzato dalla Goren Monti Ferrari Foundation in collaborazione con il Corriere del Ticino, la Facoltà di Teologia, l’Università della Svizzera Italiana e con il Patrocinio del Comune di Lugano.
I relatori
A discutere di questi e di altri quesiti sono stati invitati:
Silvia Guetta, professoressa Università di Firenze, per la religione ebraica; suor Cristiana Dobner, dottoranda alla Facoltà di Teologia, del Convento di Clausura delle Carmelitane Scalze, per la religione cristiana e
Maryam Ismail, Antropologa, per la religione musulmana
L’evento sarà moderato dal giornalista del Corriere del Ticino Carlo Silini. Al termine della tavola rotonda ai partecipanti sarà offerto un buffet casher/hallal.
L’entrata è libera. Per informazioni: gorenmontiferrari
telefono: 079 8801119.