A Zurigo vive il Totò Riina della Svizzera

I mafiosi siciliani lo chiamano «schiticchio», gli ’ndranghetisti calabresi, invece, «mangiata». Il senso è sempre lo stesso: un summit criminale con le gambe sotto il tavolo. In cui si discutono e si dirimono soprattutto i contrasti, ma nei quali si danno pure ordini, si decidono omicidi, traffici illeciti, investimenti con i soldi del narcotraffico. Il tutto condito con i piatti della tradizione. Perché anche i cattivi mangiano, e quando lo fanno tra loro, in compagnia, tendono a esagerare.
Delle 304 pagine della sentenza di primo grado del processo «Cavalli di razza» celebrato in Corte d’Assise a Como, almeno 30 sono dedicate a una di queste «mangiate», organizzate a Winterthur il 30 maggio 2020 nell’«orto» di Rocco Larosa, in Hulfteggstrasse. Una riunione «documentata grazie all’intercettazione» (compiuta dalla polizia elvetica) del telefono di Michelangelo Larosa, detto “Bocconcino”, 53 anni, ritenuto il reggente della locale di Fino dopo l’arresto del nipote Pasquale Larosa, il figlio del mammasantissima Giuseppe, “Peppe la mucca”, in carcere dai tempi dell’operazione Insubria (2014).
La riunione era nota anche alle nostre cronache, essendo citata nel provvedimento di custodia cautelare emesso dalla DDA di Milano nel 2021. Quello che ora la sentenza della Corte d’Assise lariana certifica, è la sua rilevanza. E il conseguente spessore criminale di chi vi prende parte.
La giurisprudenza penale italiana considera ormai «indice di appartenenza al sodalizio» mafioso proprio la «partecipazione a riunioni di carattere riservato, ad esempio le “mangiate”, che - per il loro carattere - non ammettono la presenza neppure occasionale di persone esterne all’organizzazione».
La falsa assunzione
È anche per questo, per aver preso parte alla «mangiata» del 30 maggio 2020 a Winterthur, che Claudio Tonietti, 43 anni, è stato riconosciuto dai giudici comaschi quale «referente» della locale di Fino Mornasco in Svizzera e condannato a 7 anni e 6 mesi di carcere.
Assunto fittiziamente da una società di Regensdorf riconducibile a Stefano Bovino, 52enne originario di Martano (Lecce), Tonietti - così come accertato dalla stessa polizia elvetica - non ha mai «svolto alcuna attività lavorativa» nella Confederazione. «L’assunzione - scrivono i giudici - era stata volta a ottenere un salvacondotto per la permanenza in Svizzera, perdipiù attraverso l’uso di una falsa identità, quella del fratello Giampaolo».
Ma c’è di più. Sempre le indagini della polizia svizzera, le cui note sono allegate al fascicolo del processo celebrato in Corte d’Assise a Como, hanno «ricostruito l’àmbito delle relazioni in cui» Tonietti «si muoveva» nella Confederazione e la sua appartenenza al «gruppo di persone», almeno undici, «chiamate da Pasquale Larosa» a «lavorare in Svizzera e per le quali furono pagati» almeno «50 mila euro di affitti».
Tonietti, aggiungono i giudici, partecipò «a numerosi incontri organizzati anche in funzione della più lucrosa delle attività svolte dal gruppo, la cessione degli stupefacenti».
Tra questi incontri, almeno uno fu documentato, sempre dalla polizia elvetica. Il 30 luglio 2020, Tonietti si vide con un cinquantenne zurighese di origini italiane. La loro conversazione, a bordo di una BMW, fu captata con un microfono direzionale. L’uomo incontrato da Tonietti, ha raccontato in aula un ispettore di polizia, era «un soggetto appartenente a un gruppo di motociclisti attivo nel traffico di stupefacenti e, in quell’àmbito criminale, era indicato come il “Totò Riina” della Svizzera».