L'incontro

Abusi nella Chiesa, i vescovi svizzeri: «Vogliamo far emergere tutta la verità»

A Zurigo i titolari di tre diocesi elvetiche, fra cui Alain de Raemy, hanno incontrato Corriere del Ticino, NZZ e Le Temps e illustrato in dettaglio cinque proposte tese a cambiare la Chiesa e a dare risposte concrete alle vittime delle violenze
Da sinistra: Alain De Raemy, amministratore apostolico della diocesi di Lugano, il vescovo di Coira Joseph Maria Bonnemain e il vescovo di Basilea Felix Gmür, presidente della Conferenza episcopale svizzera. © CdT/Gabriele Putzu
Dario Campione
23.09.2023 06:00

Tre vescovi svizzeri e tre giornalisti di testate nazionali, una per ogni regione linguistica: per la prima volta, le gerarchie della Chiesa elvetica scelgono di sedersi attorno a un tavolo per discutere in modo «franco e libero» dello scandalo degli abusi e del trauma delle vittime, trauma che sta piegando le gambe di un’istituzione millenaria. Quello che segue è il resoconto dell’incontro.

«Non abbiate paura». Il 22 ottobre 1978, una domenica, piazza san Pietro trabocca di uomini e donne. Roma è in strada per vedere e sentire il nuovo papa. Giovanni Paolo II è sul trono della Chiesa cattolica da sei giorni. Nessuno può immaginare fino a che punto quest’uomo sarà capace di cambiare la storia.

L’omelia è interrotta di continuo dagli applausi della folla. A un certo punto, il tono della voce del pontefice polacco si alza. Quasi urla, il papa. «Non abbiate paura», dice. «Aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo».

Nel mondo della guerra fredda, quell’appello scuote innanzitutto il cerchio stretto del potere. Ma letto a distanza di decenni, la forza dirompente del messaggio è intatta. Soprattutto oggi che ai confini premono i disperati e i senza futuro. «L’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa Terra - dice ancora Wojtyla stringendo in mano i fogli - È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi - vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia - permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita».

In primo piano Felix Gmür, subito dietro Joseph Maria Bonnemain e Alain de Raemy. © CdT/Gabriele Putzu
In primo piano Felix Gmür, subito dietro Joseph Maria Bonnemain e Alain de Raemy. © CdT/Gabriele Putzu

La scuola sulla Hirschengraben

Il ricordo delle parole del papa polacco si è materializzato, mercoledì scorso, in una stanza al primo piano della Aki Kath di Zurigo, la casa della comunità universitaria cattolica situata sulla Hirschengraben, a poche centinaia di metri dalla Hauptbahnhof. Qui, attorno a un grande tavolo rotondo, si sono seduti tre vescovi - il titolare della diocesi di Basilea e presidente della conferenza episcopale elvetica (CVS) Felix Gmür, il vescovo di Coira Joseph Maria Bonnemain e l’amministratore apostolico della diocesi di Lugano Alain de Raemy - il segretario generale della CVS Davide Pesenti, alcuni moderatori e tre giornalisti della carta stampata, in rappresentanza delle regioni linguistiche del Paese (NZZ per i germanofoni, Le Temps per i romandi e il Corriere del Ticino).

Un incontro informale, una discussione aperta e libera. Voluta dai vescovi per parlare del rapporto pilota sugli abusi sessuali in àmbito ecclesiastico presentato alcuni giorni fa dall’Università di Zurigo. Di come questo rapporto sia nato e dei motivi per cui la ricerca dovrà andare avanti. Ma anche per rendere note le decisioni formali assunte a San Gallo al termine dei tre giorni di lavori dell’assemblea ordinaria della stessa conferenza episcopale. E per riflettere proprio su quel «senso della vita» che papa Wojtyla esortava ad affrontare senza paura.

I giornalisti, per mestiere, raccontano fatti. Spesso, sono chiamati a farlo con un distacco che diventa necessario quando gli argomenti si fanno complessi, spinosi. Il coinvolgimento emotivo non è mai del tutto evitabile, ma è buona regola tenerlo quantomeno a bada. Uno scambio di idee come quello organizzato dai vescovi elvetici avrebbe potuto essere spiazzante. Diventare una sorta di trappola emozionale. Facilitata dall’abbattimento delle barriere formali di una conferenza stampa. Se questo non è avvenuto, bisogna sottolinearlo, è anche merito di chi ha voluto il dialogo. Perché lo ha fatto non per attenuare la tempesta o invertire la direzione impressa alla spirale mediatica dagli esiti dello studio dell’Università di Zurigo, quanto piuttosto per ribadire scelte da cui tornare indietro sarà impossibile. E accettando di rispondere molto “laicamente” a qualunque obiezione.

L'elemento chiave che lega tutti i nostri provvedimenti è la prospettiva di giustizia per le vittime
Felix Gmür, vescovo di Basilea e presidente della Conferenza episcopale svizzera

Un processo molto lungo

«Ogni cosa deve venire alla luce, altrimenti tutto questo sarà servito a nulla», è stato l’esordio di monsignor Bonnemain. Il quale dal 2002 segue la commissione di esperti istituita dalla CVS proprio per fare luce sugli abusi sessuali in ambito ecclesiale. Venti anni sono occorsi per fare il primo passo di indagine scientifica. Troppi, è stata l’inevitabile osservazione. «È vero - ha ammesso Bonnemain - ma il necessario cambiamento di mentalità è stato un percorso difficile. E lungo il processo di convincimento servito a superare i dubbi di vescovi, organizzazioni religiose, ordini: per persuadere tutte queste persone alla massima trasparenza e a finanziare il progetto di ricerca c’è voluto molto tempo».

Indietro, tuttavia, non si può tornare. E non si torna. «Il progetto pilota è stato un test attraverso cui abbiamo capito di poter fare emergere l’intera verità - ha aggiunto Bonnemain - un test voluto da noi vescovi e servito anche alle ricercatrici dell’Università di Zurigo per verificare concretamente quanto fosse affidabile la nostra disponibilità». L’Università di Zurigo continuerà quindi nel suo lavoro. Un nuovo contratto è stato siglato per il triennio 2024-2027. «La Chiesa svizzera nella sua interezza ha detto sì a uno studio che sia scientifico, neutro e professionale. Uno studio storico che garantisca prima di tutto giustizia per le vittime - ha detto monsignor Gmür - Le regole del gioco sono chiare, pubbliche, fissate in un contratto accessibile a chiunque. Per la prima volta apriremo tutti gli archivi, daremo ai ricercatori la possibilità di accedere a ogni documento utile per risalire a eventuali abusi. Garantiamo loro piena libertà».

L’iniziativa dello studio, la scelta di cercare la verità fino in fondo è stata della Chiesa, hanno insistito i vescovi. Ed è nata dopo discussioni anche accese nella gerarchia, oltre che sulla spinta delle associazioni delle vittime. «Tanta gente pensa che l’Università di Zurigo si sia spontaneamente interessata alla questione e abbia deciso di fare un’indagine, che questa iniziativa fosse cioè esterna alla Chiesa cattolica e che noi vescovi siamo stati costretti a cedere. Non è così», ha detto monsignor de Raemy.

Le parole chiave sono: «Nessun condizionamento», aggiunge de Raemy, che nella bufera degli archivi manomessi si è ritrovato suo malgrado quando, da amministratore apostolico di Lugano, ha scoperto - proprio leggendo il progetto pilota dell’Università di Zurigo - che buona parte delle carte compromettenti della diocesi ticinese era stata distrutta (senza conservarne traccia, così come previsto dal diritto canonico) alla fine degli anni ’90 del Novecento per decisione del vescovo Giuseppe Torti. «Nulla di ciò che concerne gli abusi sarà nascosto - ha ripetuto de Raemy - tutti gli archivi saranno disponibili, nella loro totalità. Documenti, dossier, fascicoli personali».

In realtà, un vuoto rimane. Incolmabile, almeno per il momento. L’archivio della nunziatura apostolica, che ha carattere diplomatico, non sarà comunque accessibile, così come avvenuto anche durante il progetto pilota. «I vescovi ordinari non hanno alcun potere sugli archivi diplomatici, le cui regole di conservazione sono fissate dal diritto internazionale - ha spiegato monsignor Gmür - abbiamo chiesto al nunzio, così come hanno anche fatto le ricercatrici di Zurigo, di permettere la consultazione delle carte specifiche, ma la risposta è stata negativa. Sul segreto di Stato decide il Vaticano».

Non è una lacuna da poco. Nell’archivio della nunziatura possono essere conservate le corrispondenze tra le diocesi e Roma su singoli casi. «Di solito, quando il nunzio lascia il suo incarico, una parte dell’archivio viene spostato in Vaticano - ha sottolineato Bonnemain - non si può quindi escludere che documenti interessanti per la ricerca possano essere custoditi in uno dei dicasteri competenti della curia romana. Noi ci impegneremo affinché le carte relative a casi specifici su cui i ricercatori vogliono indagare possano essere esaminate. Lo faremo. Non è detto che il Vaticano accetti. Ma andremo dal cardinale Parolin (il segretario di Stato, ndr). E glielo diremo».

Chiederemo al Vaticano di aprire anche gli archivi della nunziatura apostolica
Joseph Maria Bonnemain, vescovo di Coira

Salvare sé stessi?

La volontà della Chiesa svizzera di accertare la verità appare chiara. Ma come darle credito? La domanda è inevitabile, visto quanto è successo. E poi: si tratta di un tentativo di salvare sé stessi o di qualcosa di più profondo? In concreto: è un vero cambiamento di rotta? «In passato abbiamo spiegato, promesso, chiesto perdono. Ma stavolta è diverso - ha detto monsignor Bonnemain - perché oltre alla convinzione di ciascuno, c’è una decisione formale della conferenza dei vescovi. Ci sono scelte che vincolano ciascuno di noi e la Chiesa svizzera nel suo insieme».

Sono le cinque risoluzioni, già prese in accordo con la RKZ e la Kovos e presentate la settimana scorsa sempre a Zurigo proprio dal vescovo di Coira, ma adesso precisate e concretizzate al termine dei tre giorni di dibattito della CVS a San Gallo. E di fatto, la divulgazione più precisa di questi punti e dell’intervento dei vescovi a Roma, è uno dei motivi per i quali è stato organizzato il tavolo di Zurigo.

Vediamo, allora, che cosa hanno deliberato i vescovi elvetici. Primo: andare avanti, come detto, con la ricerca sugli abusi, confermando per altri 3 anni il contratto di collaborazione con l’Università di Zurigo voluto dai vescovi. Secondo: non applicare più, in futuro, il canone 489 del Codice di diritto canonico sulla distruzione dei documenti. Terzo: finanziare un centro nazionale di contatto e di ascolto delle vittime, autonomo e indipendente, al quale possano rivolgersi tutti coloro i quali hanno subìto abusi, o che vogliano parlare di violenze e abusi, fatto salvo il principio che ogni denuncia di presunti reati penali va subito indirizzata alla giustizia civile. Quarto: stabilire standard nazionali per la selezione e la valutazione di tutti gli agenti pastorali, delle persone cioè che vogliano lavorare in àmbito ecclesiastico. Quinto: professionalizzare la redazione e la conservazione dei fascicoli personali dei religiosi e dei collaboratori diocesani. A questi cinque punti va aggiunta la decisione di creare un tribunale penale e disciplinare ecclesiale per la Chiesa elvetica chiamato a occuparsi soltanto delle sanzioni da infliggere agli ecclesiastici che violano il diritto canonico. Nulla che si sostituisca ai Tribunali civili, davanti ai quali i presbiteri che commettono reati dovranno sempre e comunque comparire in via prioritaria.

«L’elemento chiave che lega questi provvedimenti - ha detto monsignor Gmür - è la prospettiva di giustizia per le persone. Non vogliamo agire andando al di là delle vittime, ma coinvolgendole. Sono loro il nostro punto di riferimento. Il nostro approccio sarà storico, non giuridico. Non cerchiamo la verità per condannare, ma per ricostruire i fatti, individuarne i meccanismi e le cause. Capire anche, con il metodo della comparazione, se esista una specificità cattolica su questo terreno».

Il centro nazionale di ascolto sarà, in questo senso, un elemento assoluto di novità.

«L’accesso sarà semplificato - ha chiarito monsignor de Raemy - entro il mese di novembre presenteremo un documento nel quale saranno definiti con chiarezza scopi, competenze, profili degli operatori. E tutte le vittime potranno rivolgersi, anche da questo nuovo centro di ascolto, alla commissione già esistente per chiedere un risarcimento».

I tre vescovi salgono verso la AKI KATH sulla Hirschengraben a Zurigo. © CdT/Gabriele Putzu
I tre vescovi salgono verso la AKI KATH sulla Hirschengraben a Zurigo. © CdT/Gabriele Putzu

Un anno per l’operatività piena

Prima della fine del 2024 tutto questo dovrà essere pienamente operativo. Ma è ovvio che non saranno soltanto i cambiamenti strutturali, pure significativi, a ridare fiato a una Chiesa in evidente crisi. Una Chiesa i cui ranghi si assottigliano e da cui molti fedeli si allontanano.

Al tavolo di Zurigo, la riflessione su questi temi è stata molto schietta. Nessuno, tra i vescovi, ha negato l’evidenza delle difficoltà. Anzi, ciascuno di loro ha affrontato le singole questioni quasi in maniera spietata, facendo emergere in modo evidente le asperità e le differenze che caratterizzano il dibattito dottrinale all’interno della gerarchia e della koiné cattolica universale. «Per troppo tempo la Chiesa è entrata nella vita delle persone occupandosi soprattutto della morale sessuale e non di un’etica che fosse integrale - ha detto ad esempio monsignor Gmür - Essere un buon cristiano significa avere discernimento su questioni quali la giustizia, il lavoro, l’uso del denaro, lo sfruttamento dell’ambiente. Ripensare tutto alla luce del Vangelo. È un cambiamento culturale profondissimo, che ha bisogno di tempo. Intaccare visioni radicate e profonde non è facile».

Il processo sinodale innescato da papa Francesco, il ritorno a una Chiesa più collettiva e meno autoritaria, una Chiesa in cui le scelte siano condivise e i preti non siano «semidei» ma uomini tra gli uomini, può essere motore del cambiamento necessario a riallineare il popolo di Dio alla società pervasa (nel suo insieme) da un processo sempre più profondo di secolarizzazione. «Personalmente non vedo un problema nel distacco evidente tra Chiesa e società, se premette più grande libertà e complementarità - ha detto monsignor de Raemy - e la stessa secolarizzazione può essere un’opportunità. Decidere con coscienza, e non soltanto per tradizione, di andare verso Dio è positivo. La fede non è registro civile».

Nessuna paura, quindi, di fronte ai banchi deserti durante le messe. «Qualcuno ha fatto notare che le chiese sono finalmente vuote, così siamo costretti a uscire e a cercare le persone nelle strade», ha detto il vescovo di Coira. D’altronde, ha aggiunto, non avrebbe senso «temere di non essere in sintonia con la società. La Chiesa cambia, così come cambia la società. La Chiesa è nel mondo. E in questo mondo, non si possono dare risposte alle grandi domande della vita facendo a meno del trascendente. Ciò di cui abbiamo bisogno sono semmai cristiani che scelgono di restare in cammino alla ricerca di queste risposte».

Non possiamo negare che in passato il celibato sia stato un rifugio per giovani impauriti della propria vita sessuale
Alain de Raemy, amministratore apostolico della diocesi di Lugano

La questione del celibato

In un confronto come quello di Zurigo non poteva mancare un accenno alla questione giornalisticamente più dibattuta, quando si parla di preti cattolici e di abusi: l’obbligo del celibato. Una corrispondenza diretta tra le due cose non esiste, sebbene spesso ci sia chi afferma il contrario. I vescovi svizzeri non escludono che, in futuro, qualcosa possa cambiare. È stato Francesco a dire che il tema non è ancora «maturo» a sufficienza. Ma «nascondersi dietro il celibato, farne un alibi, non è ammissibile - ha chiosato monsignor de Raemy - la famiglia del sacerdote è la comunità. Ciò detto, non possiamo negare che in passato il celibato sia stato un rifugio, una scappatoia per giovani immaturi o impauriti della propria vita sessuale, e per chi non voleva riconoscere la propria omosessualità».

Anche per questo, l’accesso al sacerdozio sarà un percorso segnato dal riconoscimento di qualità autentiche, anche sul piano psicologico e in confronto diretto con donne e laici nel percorso di formazione.

Una Chiesa plurale

Cambierà davvero, la Chiesa cattolica svizzera? Le rivelazioni contenute nello studio pilota dell’Università di Zurigo, e tutto ciò che emergerà nei prossimi anni, favoriranno questo cambiamento? Soprattutto: sono gli attuali vertici delle gerarchie ecclesiastiche, coloro cioè che, in alcune circostanze, non hanno visto o non hanno voluto vedere ciò che stava accadendo, le persone giuste a guidare un passaggio così delicato? Non sarebbe meglio avvicendare gli uomini prima di ogni altra cosa?

«La mancanza di fiducia di chi ci osserva dall’esterno può essere compresa - ha ammesso monsignor Bonnemain - ma ciò che facciamo lo abbiamo voluto e deciso noi. Non siamo superuomini, non possiamo sparire, ma ci assumiamo la responsabilità di mettere in pratica il cambiamento anche, per esempio sul modo di fare un’indagine interna, di accelerare la necessaria trasformazione culturale. E su questo chiediamo sostegno e incoraggiamento».

«La Chiesa cattolica svizzera non è un monolite. È plurale. Le nostre decisioni sono state prese assieme agli ordini religiosi e alla Conferenza centrale al termine non di una lotta, ma di un lungo confronto - ha aggiunto monsignor Gmür - il processo sinodale ci porta a ragionare anche sul potere: non siamo monarchi, dobbiamo discernere e camminare gli uni a fianco degli altri». Fare, insomma, una rivoluzione senza rivoluzione. E permettere a Dio di parlare nuovamente agli uomini.

In questo articolo: