Amal Clooney a Berna: «La giustizia vale solo se protegge anche chi non ha potere»

Avvocata tra le figure più autorevoli del diritto internazionale e dei diritti umani, docente a Oxford e consulente speciale delle Nazioni Unite per la giustizia e la responsabilità, Amal Clooney è stata l’ospite d’onore della quinta edizione del Prix Suisse, il premio promosso da Iniziativa Svizzera e consegnato sabato 8 novembre al Kursaal di Berna. L’atmosfera era quella delle grandi occasioni: quattrocento ospiti, una sala piena di volti del mondo economico e politico, un silenzio attento quando lei è salita sul palco, elegante ma sobria nel suo abito rosso, per un fireside chat dedicato ai diritti umani, alla libertà di stampa e alle sfide della giustizia nell’era dell’intelligenza artificiale.
«È la mia prima volta a Berna», ha detto, ringraziando per l’accoglienza. «Sono colpita dalle donne che ho incontrato qui: leader, imprenditrici, parlamentari». E poi, quasi senza transizione, ha cominciato a raccontarsi. È cresciuta nel Regno Unito, in una famiglia di origini libanesi: il padre giornalista, la madre, Baria Alamuddin, conduttrice e corrispondente di guerra. «La mia infanzia è stata piena di storie di ingiustizia e di coraggio. A casa si discuteva di libertà di stampa, di paesi in conflitto, di diritti negati. Forse da lì è nato tutto», ha raccontato. Ma il primo impiego, a New York, non era in una ONG, bensì in un grande studio legale: «Mi occupavo di fusioni, contratti, cause miliardarie. Poi ho capito che le stesse competenze potevano servire a chi non avrebbe mai potuto permettersi un avvocato».
Da quel momento, la traiettoria ha cambiato direzione. «Ho lasciato un lavoro molto pagato per uno molto meno pagato», ha detto, sorridendo. «Ho chiamato la banca e ho detto: guadagnerò il dieci per cento di prima. Mi hanno dato della pazza. Ma sapevo perché lo stavo facendo». All’Aia, nel cuore della giustizia internazionale, ha seguito casi che l’hanno segnata profondamente. Tra questi, il processo contro un comandante janjaweed responsabile dei massacri in Darfur. «Ho rappresentato trecento vittime. Quando è arrivata la condanna per crimini contro l’umanità e crimini di guerra, per loro è stato un risarcimento morale. Significava che la comunità internazionale aveva riconosciuto la loro sofferenza».
Il suo discorso scorre tra ricordi e riflessioni, alternando aneddoti e principi. «La legge deve valere per tutti. A Norimberga i procuratori dissero che, se il diritto punisce solo i piccoli reati commessi da uomini piccoli, non ha significato. Deve potersi applicare anche a chi detiene il potere». Poi un passaggio sulla memoria europea: «Abbiamo costruito istituzioni per dare corpo al ‘mai più’. Eppure, abbiamo rivisto gli stessi orrori in Bosnia. Non sempre si riesce a prevenire, ma perseguire i crimini può avere un effetto deterrente».
Si è fermata più a lungo sulle sopravvissute yazide ridotte in schiavitù sessuale dall’Isis. «Intervistarle è stata la parte più difficile del mio lavoro. Ma ho visto in loro il massimo del coraggio». Ricorda una scena: «In Germania, una donna irachena ha testimoniato contro l’uomo che la teneva prigioniera. Alla lettura della sentenza, lui è svenuto. Lei è rimasta in piedi. In quel momento capisci cosa significa riequilibrare i rapporti di forza attraverso la giustizia».
Accanto alle storie, emergono i volti: Nadia Murad, poi Premio Nobel per la Pace, e Maria Ressa, giornalista filippina incarcerata per le sue inchieste. «Maria avrebbe potuto restare all’estero. Ha scelto di tornare per affrontare processi che riteneva ingiusti. Quel tipo di coraggio servirebbe più spesso anche nei palazzi del potere».
Il cuore del suo lavoro oggi passa attraverso la Clooney Foundation for Justice, fondata con il marito George. «Volevamo creare una struttura capace di fornire assistenza legale gratuita a chi viene perseguitato per aver esercitato un diritto», ha spiegato. Con TrialWatch, la fondazione monitora processi penali in tutto il mondo: «Abbiamo assistito giornalisti, attivisti, donne vittime di violenza. Quando portiamo i casi davanti a corti internazionali, finora abbiamo avuto il cento per cento di successi. Ma i numeri dei reporter incarcerati restano altissimi. Senza stampa libera e magistratura indipendente, nessuna libertà regge».
Poi lo sguardo si è spostato sul futuro, e sul progetto che unisce diritto e tecnologia: l’Oxford Institute of Technology & Justice, nato in collaborazione con l’università dove insegna. «La tecnologia corre più delle leggi», ha detto. «In alcuni Paesi l’intelligenza artificiale predice gli esiti dei processi in pochi secondi; altrove viene usata per stabilire la libertà su cauzione. Dobbiamo aggiornare il concetto stesso di difesa: cosa significa, se parte del lavoro la fa un algoritmo? Chi controlla l’autenticità delle prove digitali?».
Accanto ai rischi, ha citato soluzioni concrete. «Stiamo sviluppando strumenti che permettano a donne e ragazze di ottenere informazioni legali di base — per esempio sapere che nessuno può costringerle a sposarsi da minorenni — e di contattare subito un legale. In molti Paesi un ordine di protezione è decisivo ma burocratico: l’AI può compilare i moduli, e l’avvocato interviene solo nell’ultima fase. Formiamo inoltre giudici in 160 Paesi per valutare le prove digitali».
«Come genitori pensiamo al mondo che lasceremo ai nostri figli», ha detto Amal Clooney, lasciando emergere un lato più introspettivo. Madre dei gemelli Ella e Alexander, ha parlato con la serenità di chi conosce il peso delle domande future: «Un giorno ci chiederanno se davvero le donne subivano violenze, se i giornalisti finivano in prigione per aver detto la verità. E noi cosa potremo rispondere?». Poi, con un sorriso che ha alleggerito la sala, ha aggiunto: «La mia strategia è semplice: stare vicino a chi amo, ridere molto, non dimenticare che la vita è anche questo. Nessuno, alla fine, dice: «avrei voluto passare più tempo in ufficio»».
«Ognuno può contribuire in modo diverso — con il lavoro, con il voto, con il modo in cui cresce i figli. L’importante è non restare indifferenti. Tutto ciò che facciamo lascia un segno, anche minimo, e la somma di questi gesti può cambiare il mondo».
