Il disastro

Blatten: la scienza prova a leggere i fatti, ma la situazione è ancora instabile

Il Kleines Nesthorn è tuttora in movimento – Come ci spiega Daniel Farinotti (ETH), il monitoraggio della montagna era iniziato in seguito alle dinamiche di cui si era reso protagonista il ghiacciaio Birch – Da Dushanbe la richiesta di uno sforzo globale per preservare i giganti di ghiaccio
©Maxar Technologies
Paolo Galli
01.06.2025 21:33

Sono passati giorni, ormai, dal crollo del ghiacciaio Birch, ma la situazione resta instabile. La montagna è ancora in movimento. Molte le incognite, che frenano le prospettive e i lavori orientati al futuro della valle. Ancora si guarda verso quei giganti, in su, cercando spiegazioni, provando a trovare una sintesi che possa motivare quanto accaduto, un crollo senza precedenti nelle Alpi svizzere. Tra le voci più autorevoli che si sono fatte largo in questi giorni un po’ confusi c’è sicuramente quella di Daniel Farinotti, professore di Glaciologia al Politecnico federale di Zurigo e all’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio (WSL). Venerdì ha pubblicato una nota con i colleghi Matthias Huss e Mylène Jacquemart, per riassumere i punti noti. È interessante il ruolo dei ricercatori, in questa fase, perché come riassumeva lui stesso, l’obiettivo è quello di utilizzare i dati raccolti e le conoscenze disponibili «per supportare le autorità, che stanno svolgendo un lavoro incredibile in circostanze estremamente difficili per mantenere una panoramica della situazione e migliorare la condizione delle persone».

Il riscaldamento climatico

Al Corriere del Ticino, il professor Farinotti spiega: «È ormai chiaro che le frane avvenute sul Kleines Nesthorn, la montagna sopra il ghiacciaio, abbiano portato al crollo del ghiacciaio stesso. C’erano già diverse frane prima del crollo di mercoledì e di conseguenza si erano accumulati detriti rocciosi sul ghiacciaio. Meno chiaro, semmai, è perché la montagna sia franata. La domanda che tutti si fanno, in questo momento, è legata al riscaldamento climatico. C’è un legame? Siamo di fronte a un evento molto raro, e allora è difficile dire, così su due piedi: sì, è legato ai cambiamenti climatici, oppure no, non è legato a quel fattore. Certo, la frana è avvenuta in una zona di permafrost». Lo stesso Matthias Huss, nei giorni scorsi, aveva definito come «plausibile» che il progressivo scioglimento del permafrost abbia destabilizzato il pendio, contribuendo al disastro. D’altronde, ci si è resi conto che la montagna era in movimento «non tanto per la montagna in sé», spiega Farinotti, bensì «grazie al monitoraggio del ghiacciaio. Il quale, cosa rara, di questi tempi nelle Alpi, stava avanzando». Era avanzato di circa cinquanta metri dal 2019. L’aumento dello spessore alla base del ghiacciaio era dovuto, in parte, ai detriti rocciosi depositatisi sul ghiacciaio, che hanno impedito al ghiaccio di sciogliersi in superficie. Lo stesso professore dell’ETH ribadisce la supposizione di Huss: «Si può ipotizzare che il riscaldamento del permafrost abbia facilitato il tutto».

Difficili previsioni

In fondo, è un caso se gli occhi dei ricercatori e delle autorità si sono rivolti a quella montagna, a quelle frane. «Si teneva d’occhio attentamente il ghiacciaio, sì, e facendo le misure del caso, qualcuno si è accorto che tutta la montagna si stava muovendo». Ma allora si poteva già preventivare con largo anticipo quanto accaduto? È una questione di tempistica. «Se qualcuno me l’avesse chiesto due anni fa, avrei risposto probabilmente di no. Se invece la stessa domanda mi fosse stata posta una settimana fa, be’, a quel punto era piuttosto chiaro che sarebbe successo. È proprio questa la ragione che ha portato all’evacuazione del villaggio. Si sapeva che sarebbe accaduto qualcosa di grosso, ma era impossibile prevederne le dimensioni. In questi casi si lavora sui possibili scenari, e sulla base di questi si prendono le decisioni». Difficile anche azzardare similitudini con altre situazioni. «Quale sarà il prossimo ghiacciaio a dare problemi? È la domanda da un milione. Ma attraverso la ricerca proviamo comunque a leggere questi processi, a trovare indizi che ci permettano di prevenire. Infatti, tutti i ghiacciai vengono monitorati regolarmente». Farinotti definisce «straordinario» il lavoro fatto in questo senso dai Cantoni.

La Conferenza in Tagikistan

Va considerata anche l’evoluzione degli strumenti e delle tecnologie. «Non occorre tornare indietro di cinquant’anni per trovare strumenti del tutto diversi rispetto a quelli attuali. L’evoluzione è continua. Basti pensare alle capacità satellitari. Sono stati fatti passi da gigante. E poi c’è l’intelligenza artificiale, che rappresenta la frontiera del momento, con enormi potenzialità. Con la crescita esponenziale delle possibilità di misurazione, chiaramente crescono di pari passo i dati a disposizione, e allora diventa difficile valutarli tutti attraverso una forma di analisi classica. Qui si inserisce al meglio l’IA». Anche la ricerca si muove di conseguenza. «La ricerca sui pericoli naturali legati ai ghiacciai è una nicchia. Ma l’attenzione sta crescendo. Ne è una prova quanto emerso dalla Conferenza internazionale sulla conservazione dei ghiacciai, tenutasi proprio in questi giorni a Dushanbe, in Tagikistan, sotto l’egida dell’ONU. La Dichiarazione sui ghiacciai di Dushanbe rappresenterà una sorta di guida verso il futuro». E un nuovo punto di partenza verso la COP 30, che si terrà in Brasile tra il 10 e il 21 novembre. «Nella Dichiarazione si parla proprio anche dei pericoli naturali dovuti ai ghiacciai. E questo, di fatto, eleva di molto sia la questione sia la ricerca riferita ad essa. L’obiettivo è infatti quello di estendere i sistemi di monitoraggio in luoghi meno equipaggiati rispetto alla Svizzera. Penso alle Ande, all’Himalaya». Lo stesso Stefan Uhlenbrook, direttore del Dipartimento acqua e criosfera dell’Organizzazione meteorologica mondiale, a margine dell’evento di Dushanbe, ha detto: «Dal monitoraggio alla condivisione dei dati, dai modelli di simulazione numerica alla valutazione dei pericoli e alla loro comunicazione, l’intera catena deve essere rafforzata». E lo svizzero Ali Neumann, consulente per la riduzione dei rischi di catastrofi presso la Direzione dello sviluppo e della cooperazione, sempre in Tagikistan, ha spiegato: «Il cambiamento climatico e il suo impatto sulla criosfera avranno ripercussioni crescenti sulle società umane che vivono vicino ai ghiacciai, vicino alla criosfera, e che da essa dipendono in un modo o nell’altro». Ce ne siamo accorti.