Chance di successo con l'UE? «Abbastanza alte da accettare il rischio»

La Svizzera si riavvicina a Bruxelles. Due anni e mezzo dopo l’improvvisa (seppur inevitabile) interruzione dei negoziati sull’accordo quadro istituzionale, le chance di un’intesa con Bruxelles sono diventate più concrete. Dal 26 maggio 2021 al 15 dicembre 2023 molte cose sono cambiate: i problemi principali restano, ma la parola d’ordine, questa volta, è «dialogare».
Non solo dialogare con la Commissione europea - che ovviamente preme per arrivare a un accordo - ma anche discutere a fondo (sin da subito) con i Cantoni, i sindacati e il mondo economico. È stato fatto per un anno e mezzo e ora è stata avviata un’ulteriore consultazione della durata di due o tre mesi. Poi ci sarà l’approvazione definitiva del mandato. Rispetto all’accordo quadro, è questa la novità: a livello interno c’è già una maggior unità d’intenti e ciò permette di definire chiaramente le aspettative anche da parte elvetica.
Per evitare un altro clamoroso fallimento, il Governo ha deciso di procedere tramite un approccio «a pacchetto» - includendo tutta una serie di accordi a di convenzioni - per stabilizzare e sviluppare la via bilaterale con l’UE. Ma non chiamateli Bilaterali III, ha spiegato il consigliere federale Ignazio Cassis, aggiungendo che tale termine non piace a Bruxelles, poiché fa sembrare che la Svizzera abbia uno statuto speciale. Non si tratta nemmeno di un accordo quadro 2.0.
Solide fondamenta
«Il Consiglio federale ha deciso che avrebbe rifatto un negoziato solo se le chance di successo sarebbero state date. Quanto buone devono essere? Abbastanza alte da accettare il rischio», ha spiegato il «ministro» degli Esteri in conferenza stampa, aggiungendo che per il Governo «le fondamenta ora sono solide».
Il Consiglio federale, in una lettera inviata a inizio novembre alla presidente della Commissione UE Ursula Von der Leyen, ha tuttavia precisato che l’intesa comune (o «Common Understanding», il documento elaborato alla fine degli 11 colloqui esplorativi e delle 46 discussioni tecniche) «non deve essere considerata una “linea rossa” per i futuri negoziati». Cioè?«Tutto può ancora essere negoziato», ha sottolineato Cassis.
Perdita di sovranità
Il rischio di ritrovarsi ai piedi della scala, dunque, non è da escludere completamente. Anche perché alla fine sarà il popolo ad esprimersi e al momento i principali oppositori dell’accordo quadro (UDC e sindacati, seppur per ragioni diverse), continuano a essere recalcitranti (per usare un eufemismo, cfr. articolo a lato).
Tra gli aspetti più criticati dall’UDC c’è ovviamente il rischio di perdere sovranità attraverso il recepimento dinamico del diritto. Vengono definite «questioni istituzionali» e l’obiettivo è che le stesse regole si applichino a tutti i partecipanti al mercato, Svizzera compresa. Berna dovrebbe quindi adeguare le leggi nei settori in cui esistono accordi tra la Confederazione e l’UE. E se il popolo svizzero decidesse in votazione di respingere una legge? In quel caso Bruxelles potrebbe adottare «misure di compensazione» proporzionate e limitate al mercato interno.


Controversie e abusi
«In caso di controversie, l’ultima parola spetta sempre al tribunale arbitrale (composto di giudici svizzeri e dell’UE, ndr)», ha chiarito Cassis, aggiungendo che tuttavia l’interpretazione del diritto comunitario è di competenza della Corte di giustizia europea. «Ciò finisce poi nella presa di decisione da parte del tribunale arbitrale», sottolinea il ticinese, ricordando che è la Svizzera - per quanto riguarda l’accesso al mercato - che adatterebbe il diritto nei confronti dell’UE. «Siamo noi che vogliamo avere accesso».
Tra i punti in sospeso figura anche la direttiva europea sulla cittadinanza. La Svizzera, nell’ambito della libera circolazione delle persone, vuole evitare che i cittadini dell’UE «immigrati in Svizzera abusino dell’assistenza sociale svizzera». Bruxelles prevede che il diritto di soggiorno permanente sia concesso ai cittadini dell’UE dopo un soggiorno (in questo caso in Svizzera) di cinque anni. Berna – ad esempio – vuole specificare che ciò sarebbe applicabile solo a chi svolge un’attività lucrativa. Ma non solo, vuole continuare ad applicare l’iniziativa popolare (dell’UDC) «per l’espulsione degli stranieri che commettono reati», che altrimenti non sarebbe più possibile.
Protezione dei salari
A far naufragare l’accordo quadro era stata anche la questione della protezione dei salari, che aveva scatenato l’ira dei sindacati. Facciamo chiarezza. Il punto centrale riguarda il cosiddetto personale distaccato (che opera per un’azienda di uno Stato UE e lavora in Svizzera per un periodo di tempo limitato), dal momento che potrebbe far esplodere i casi di dumping salariale e di violazioni delle condizioni di lavoro elvetiche.
In Svizzera, infatti, la protezione è migliore rispetto all’UE. «Vogliamo assicurare il livello dei salari e non esporre le imprese svizzere a una concorrenza sleale», ha ribadito il «ministro» dell’Economia Guy Parmelin, sottolineando che la Svizzera non sarà obbligata a riprendere dall’UE direttive che potrebbero peggiorare le condizioni di lavoro in vigore nella Confederazione.
Clausola di non regressione
Per trovare un compromesso, il Consiglio federale ha elaborato un piano di protezione articolato in tre livelli: il principio «parità di salario per le stesse mansioni nello stesso luogo (ovvero le norme in vigore); le eccezioni (deroghe specifiche «volte a salvaguardare specificità svizzere», come la richiesta di garanzie finanziarie per imprese straniere che intendono lavorare in Svizzera) e infine - un punto cruciale - la cosiddetta «clausola di non regressione»: se in futuro dovessero avvenire modifiche al diritto dell’UE sul distacco del personale, «la Svizzera non sarà tenuta a recepire le modifiche in questione». È un aspetto che nel 2021 non c’era, ha sottolineato Cassis. E potrebbe anche essere la chiave di volta per superare l’impasse.