Economia

Dazi, l'idea di un taglio graduale per uscire dalla crisi

Secondo alcune indiscrezioni, Svizzera e Stati Uniti starebbero discutendo un accordo che prevede una correzione progressiva dell’aliquota, subordinata al rispetto di precise condizioni imposte da Washington a Berna – Ma in Ticino c’è già chi pensa di delocalizzare
©PETER KLAUNZER
Francesco Pellegrinelli
29.08.2025 06:00

L’accordo negoziale che la Svizzera starebbe discutendo con gli Stati Uniti prevede una riduzione progressiva dei dazi, pari a 5 punti percentuali ogni tre mesi, a condizione che il nostro Paese rispetti una serie di impegni concordati. Non ci sarebbe quindi un taglio immediato dell’aliquota introdotta dal presidente USA Donald Trump a seguito della nota telefonata del 31 luglio con la presidente Karin Keller-Sutter, bensì una correzione graduale legata al rispetto di precise condizioni. In altre parole: se Berna fa i «compiti», Washington riduce i dazi. In questo modo, nell’arco di un anno o poco più, la Svizzera potrebbe riuscire a riportare la tariffa doganale per le proprie merci destinate al mercato americano attorno al 15-19%.

Sarebbe questo, secondo indiscrezioni, il piano di lavoro su cui si starebbe muovendo l’amministrazione federale. Berna al riguardo, non ha fornito dettagli ufficiali, limitandosi a dichiarare che «continuerà a impegnarsi per migliorare la situazione doganale». Le uniche informazioni che filtrano arrivano dai corridoi di Palazzo e dagli ambienti economici dove questo scenario viene presentato come plausibile sebbene non confermato ufficialmente, come spiega al Corriere del Ticino il direttore di AITI, Stefano Modenini. «In effetti è uno scenario di cui si parla perché appare poco plausibile che il presidente USA voglia ridurre in un colpo solo i dazi sui prodotti svizzeri. Inoltre, in sospeso c’è ancora il tema del prezzo dei farmaci che gli americani vogliono vedere ridursi negli Stati Uniti».

Secondo le indiscrezioni emerse nelle scorse settimane, i «compiti» per ottenere una riduzione tariffale prevedono un aumento dei contratti in tema di difesa e energia, nonché concessioni finora considerate tabù relative al settore agricolo e alimentare. L’appuntamento con Washington è agendato in ottobre.

Capacità di assorbimento

Intanto, a circa tre settimane dall’introduzione dei dazi USA (l’aliquota del 39% è scattata il 7 agosto), le aziende elvetiche iniziano a farsi un’idea più chiara dell’impatto (diretto e indiretto) della misura. In questo contesto, AITI ha deciso di promuovere un sondaggio tra le aziende associate, che sono per la maggior parte esportatrici, chiedendo loro anche di sapere quali decisioni intendono prendere a medio e lungo termine. In particolare, sarà importante capire in che misura le aziende ticinesi sono in grado di assorbire un dazio del 39%, e, soprattutto, se l’eventualità di un trasferimento della produzione (parziale e totale) in un Paese UE è stata presa in considerazione.

«Le prime risposte indicano chiaramente che un dazio del 39% non è sostenibile, e che parte della produzione potrebbe essere spostata nell’UE, se non negli Stati Uniti, già da ottobre oppure nel 2026», anticipa Modenini, per il quale comunque «non bisogna fare dell’eccessivo allarmismo, ma nemmeno banalizzare la situazione», che in parte è differente per ramo di attività e singola azienda. Un dato, comunque, è comune a tutti, avverte: «L’incertezza dei mercati e della clientela, unita al parziale blocco degli ordinativi, incide negativamente sulla situazione finanziaria delle aziende, compromettendone la programmazione». A queste condizioni, è chiaro che lo scenario di un trasferimento parziale e provvisorio della produzione, ad esempio, in un Paese dell’Unione europea, dove magari l’azienda ha già una sede produttiva, potrebbe concretizzarsi. «Anche la spinta alla diversificazione dei mercati è stata accentuata, ma questo già prima della crisi dei dazi». Un trasferimento della produzione negli Stati Uniti, invece, secondo Modenini, è uno scenario più complicato e circoscritto perché oneroso e non necessariamente strategico.

I primi effetti

Una prima risposta a quesiti analoghi, intanto, l’ha fornita in questi giorni anche la Camera di commercio e dell’industria del Canone Ticino (Cc-Ti), che ha realizzato un sondaggio tra una sessantina di aziende ticinesi attive in più comparti.

In sostanza, lo studio ha evidenziato che oltre l’84% delle aziende risulta direttamente o indirettamente esposto ai dazi USA. L’impatto più forte colpisce la redditività: «Quasi la metà delle imprese segnala effetti negativi rilevanti sui margini, mentre oltre il 42% teme cali di fatturato. Le ripercussioni occupazionali, meno marcate, rimangono comunque significative, con quasi un’azienda su tre che ipotizza riduzioni di organico se la situazione attuale dovesse perdurare».

La situazione, insomma, resta tesa: anche perché, oltre al dazio del 39 %, pesa anche la debolezza del dollaro, che comporta un’ulteriore penalizzazione di almeno il 10 % sui prodotti svizzeri destinati al mercato statunitense, osserva Modenini: «Di fatto le aziende lavorano con un dazio all’esportazione del 50% verso gli Stati Uniti. Nessuno è in grado di reggere questa situazione per lungo tempo. Non dimentichiamo inoltre che non possiamo considerare solo il dazio USA del 39%, perché le nostre aziende forniscono anche tanti clienti in Europa, che è gravata da un dazio del 15%. Siamo dunque colpiti anche indirettamente».

Secondo Modenini, i nodi verranno al pettine nei prossimi mesi. «Una parte delle aziende ha già portato a termine la produzione e l’invio della merce destinata al mercato degli Stati Uniti per l’autunno e la seconda parte del 2025». Per questi ordini, quindi, non si applica il dazio del 39%. «Il problema si pone forse per l’ultima parte del 2025 e soprattutto per il 2026». Come dire: eventuali decisioni strategiche potrebbero essere rimandate di qualche mese.

Tornando alle scelte strategiche di fondo, la delocalizzazione produttiva, secondo il sondaggio della Camera di Commercio, al momento viene valutata da circa il 23% delle aziende come un’opzione di lavoro concreta. Un segnale politico importante che va soppesato al momento specifico, oggi ancora fortemente condizionato da incertezze. Nei prossimi mesi, quindi, molto potrebbe ancora cambiare. Di certo, qualora la situazione dei dazi non dovesse mutare, le imprese potrebbero rivalutare il proprio modello di business, per esempio riorientando l’attività verso mercati differenti: «Sicuramente in futuro la spinta verso altri mercati, ad esempio in Asia o in Sudamerica, senza dimenticare l’Africa, aumenterà. Anche perché abbiamo firmato , o lo faremo ancora, accordi di libero scambio molto importanti in queste aree del mondo».

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