L’approfondimento

Femminicidio, il peso morale delle parole

Spesso si utilizzano termini che tendono a snaturare l’atto, il rischio è una doppia condanna per la donna – La lacuna si insinua nel linguaggio e la resistenza nell’uso del vocabolo dilaga - Siamo andati a fondo di questa piaga sociale con la consigliera agli Stati Marina Carobbio e la coordinatrice istituzionale in ambito di violenza domestica Chiara Orelli Vassere
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Valentina Coda
09.03.2021 06:00

«Raptus di gelosia». «Delitto passionale». «Se l’è cercata». «Lei lo tradiva». «Amore malato». Sempre più spesso nei racconti di cronaca nera vengono utilizzati i guanti di velluto quando si parla di violenze perpetrate ai danni delle donne. Questi atti, invece, hanno un nome: femminicidio. Con il continuo utilizzo di attenuanti si rischia che le donne subiscano una doppia condanna: quella dei loro «cari» che si trasformano in carnefici e quella dell’opinione pubblica che le giudica moralmente. Ogni anno in Svizzera si registrano circa ventimila segnalazioni di violenza domestica. In media ogni due settimane una donna ne rimane vittima. Gli ultimi, in ordine di tempo, sono da ricondurre al 23 febbraio scorso: una 22.enne è stata uccisa dal compagno 24.enne a Buchs, nel canton San Gallo, dopo un violento litigio. Lo stesso giorno una 80.enne è stata uccisa a coltellate dal nipote a Wilchingen, nel canton Sciaffusa.

In Ticino, invece, il 19 maggio 2020 all’interno dell’Osteria degli amici di Giubiasco un agente della polizia cantonale in pensione ha sparato alla ex moglie e al suo compagno prima di togliersi la vita. Il movente? La gelosia e un matrimonio naufragato sfociati in quel che viene descritto dal Codice penale (CP) come un «omicidio passionale». L’articolo 113 del CP disciplina proprio questa tipologia di delitto, e se le parole hanno un peso, il problema è da ricondurre al lessico. O meglio, all’aggettivo. Nella versione tedesca si parla di «Totschlag», un termine neutro che non alimenta equivoci sessisti. Di contro, nella versione italiana e francese il riferimento ricade sempre sulla passione.

Gysin e Carobbio in prima linea
A sollevare il problema ci avevano pensato le due rappresentanti ticinesi alle Camere federali Greta Gysin e Marina Carobbio che, tramite due mozioni depositate a giugno dell’anno scorso e indirizzate una al Consiglio degli Stati e l’altra al Consiglio nazionale, chiedevano proprio la modifica dell’art. 113 sostituendo l’aggettivo «passionale» con una dicitura più neutra come già in essere nella versione tedesca. Eliminando il riferimento alla passione, si legge in un comunicato congiunto sottoscritto dalle due deputate che precede il deposito delle mozioni, «non si alimenta l’equivoco diffuso secondo cui l’omicidio passionale è quello tra (ex) coniugi e (ex) partner». In aggiunta, la consigliera agli Stati Marina Carobbio aveva inoltrato l’interpellanza «Eradicare il femminicidio in Svizzera» (dibattuta in Parlamento nella sessione autunnale il 24 settembre 2020, ndr.) incoraggiando l’utilizzo del termine «femminicidio» nel linguaggio mediatico e diplomatico per «evitare che gli omicidi delle donne siano banalizzati a mero omicidio o delitto passionale». Dopo anni di denunce e atti parlamentari, qualcosa sarà cambiato per tentare di adeguare il lessico utilizzato e prendere coscienza del peso delle parole? Non ancora, ma la politica si sta muovendo.

© CdT/Archivio
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Sui banchi della Camera alta il 17 marzo

Il Consiglio degli Stati aveva deciso di rinviare la mozione della «senatrice» socialista alla Commissione degli affari giuridici perché meritava un approfondimento. Il Consiglio federale chiedeva di respingere il testo perché non c’era necessità di agire e la Commissione, dopo le analisi del caso, aveva dato preavviso negativo perché, si legge nel rapporto, «un eventuale utilizzo improprio delle espressioni ‘meurtre passionnel’ nella Svizzera romanda e ‘omicidio passionale’ nella Svizzera italiana non trova riscontro nella giurisprudenza relativa all’articolo in questione. La Commissione è anche scettica sull’esistenza effettiva di alternative linguistiche corrispondenti». In sostanza, per la Commissione il termine «passionale» non crea ambiguità e quindi non è necessario modificare il CP.

La «mozione Carobbio» sarà comunque oggetto di discussioni al Consiglio degli Stati proprio il 17 marzo. Ma perché è così importante adeguare il lessico? «Nel linguaggio pubblico e mediatico – ci spiega la consigliera agli Stati – si tende a relativizzare il problema, a giustificare i drammi familiari dettati dalla passione. È un termine che si presta anche a equivoci, ricorda il delitto d’onore quasi a volere giustificare, per questo è importante parlare di questa tematica con l’intento di fare prevenzione, oltre che rendere la donna più consapevole e aiutarla a denunciare situazioni di violenza. Il termine femminicidio fa riferimento all'uccisione di donne per il fatto che sono donne, è importante utilizzarlo per combattere stereotipi sessisti che suggeriscono attenuanti e giustificazioni».

È importante utilizzare il termine per combattere stereotipi sessisti che suggeriscono attenuanti e giustificazioni

Pagine e pagine di cronaca sono state scalfite da narrazioni che confondono l’amore con il possesso e la penna di chi scrive tende a essere restia nell’utilizzo del termine femminicidio. Secondo Marina Carobbio, uno dei problemi è da ricondurre all’uso culturale del vocabolo. Ad esempio, «un’indagine linguistica condotta nella Svizzera romanda nel 2019 aveva rilevato che il termine più utilizzato, rispetto alla Svizzera tedesca e alla Svizzera italiana, era proprio femminicidio: il termine fa quindi parte del vocabolario. In certi Paesi latini, come quelli del sud America, si parla di introdurlo anche nella legislazione penale. Quello che penso sia importante è incoraggiare l'uso di questo termine. Si devono usare le parole giuste quando si parla di fenomeni sociali». Palesi, pertanto, le differenti attitudini culturali e linguistiche. «Quello che avevo notato durante la stesura degli atti parlamentari e la discussione dell’interpellanza – conclude Carobbio – è stata la grande attenzione alla tematica soprattutto da parte della Romandia».

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Perchè rimarcare forzatamente l'appartenenza della vittima al sesso femminile?

Partiamo dalle basi. Il neologismo «femminicidio» ha origini lontane: fino al 1800 era uso comune parlare di femmicidio o femicidio (dall’inglese Femicide, ndr) per indicare gli omicidi di donne. La lingua, si sa, cambia in continuazione, e il termine femicide, tradotto in castigliano come femicidio o feminicidio, si è poi diffuso a livello mondiale con un differente significato ma che indica sempre una motivazione patriarcale alla base di omicidi e altre forme di violenza maschile sulle donne. Si tratta quindi di un intreccio di parole nate in Paesi diversi. Ma perché «introdurre» nel linguaggio comune una parola che rimarca forzatamente l’appartenenza della vittima al sesso femminile quando di per sé esiste già «omicidio» che indica l’assassinio dell’uomo e della donna?

Se una società genera forme di sopraffazione e di violenza, è giusto utilizzare un termine che esprima quella violenza e quella sopraffazione

Una risposta la fornisce il linguista Rosario Coluccia che rileva – in un articolo riportato sull’Accademia della Crusca – una lacuna nella voce «femmina», descritta come «essere umano di sesso femminile, spesso con valore spregiativo». Coluccia spiega che il problema è proprio nell’aggettivo «spregiativo»: femminicidio quindi indica «l’assassinio legato a un atteggiamento culturale ributtante, di chi considera la moglie, la compagna, l’amica, la donna incontrata casualmente, non un essere umano di pari dignità e di pari diritti, ma un oggetto di cui si è proprietari». In sintesi, il termine «omicidio» è troppo blando, perché se una società genera forme di «sopraffazione» e di «violenza», «bisogna inventare un termine che esprima quella violenza e quella sopraffazione. E quindi è giusto usare ‘femminicidio’, per denunziare la brutalità dell’atto».

Tra donnicidio e rovesciamento di prospettiva

Se la voce «femmina» assume spesso una connotazione «spregiativa», perché non modificare il termine in «donnicidio»? Abbiamo girato la domanda a Chiara Orelli Vassere, coordinatrice istituzionale in ambito di violenza domestica presso la direzione della Divisione della giustizia. «L’uso del termine femminicidio invece di donnicidio permette prima di tutto di inglobare tra le vittime anche le bambine e le adolescenti, e soprattutto sottolinea l’appartenenza della vittima al genere femminile. Le donne sono uccise come e in quanto donne, e sono oggetto di disprezzo: femmine, appunto».

L’uso del termine femminicidio permette prima di tutto di inglobare tra le vittime anche le bambine e le adolescenti

Una domanda interessante da porsi è se si possa parlare di rovesciamento di prospettiva quando si utilizzano parole o frasi che tendono a snaturare l’atto. Ed è proprio sul significato delle parole che si sofferma Orelli Vassere. «La questione delle parole è sempre molto importante, e lo è a maggior ragione quando proviamo a definire l’uccisione di una donna con la quale l’assassino ha relazioni di intimità – ci spiega –. È proprio il contesto relazionale che ricopre un significato chiave per capire la specificità culturale di questo tipo di omicidio. Come spiegano molto bene i linguisti, se ci riferiamo a una situazione ‘neutra’, una donna uccisa per esempio nel corso di una rapina in un negozio, si può certamente parlare di omicidio. Ma se parliamo invece di una donna uccisa dall’ex marito, allora non possiamo non riferirci a una visione culturale che vede il femminile, la donna, disprezzato e disprezzabile: una concezione condivisa della ‘femmina’ come nulla sociale».