Fermare l’allevamento intensivo, iniziativa sostenibile o estrema?

«Fermare l'allevamento intensivo», l'iniziativa popolare in votazione il prossimo 25 settembre, è sostenibile o estrema? Luca Faranda ha posto la domanda in una doppia intervista a due consiglieri nazionali dalle visioni diametralmente opposte: Greta Gysin (Verdi) e Lorenzo Quadri (Lega).
Gysin: «L'aumento leggere dei costi potrà essere compensato da un minor spreco di cibo»
Uno degli argomenti principali dei contrari all’iniziativa contro l’allevamento intensivo è che nella Confederazione sia già in vigore una delle leggi sulla protezione degli animali più severa al mondo. Il testo che andrà alle urne non è troppo «estremo»?
«L’iniziativa vuole garantire la tutela della dignità degli animali anche negli allevamenti, vietando quelli intensivi definiti come allevamenti in cui il benessere degli animali viene leso sistematicamente. Cercare di ridurre le sofferenze di esseri viventi, è una responsabilità etica, e non ha nulla a che fare con l'estremismo! Il fatto che la nostra legislazione sia meglio rispetto ad altri Stati, non significa che tutto sia risolto in maniera ottimale: in Svizzera ci sono milioni di galline che vivono sullo spazio di un foglio A4; maiali che passano tutta la loro vita su un metro quadrato di cemento. Di tutti gli animali degli allevamenti svizzeri, solo il 12% vede la luce del sole! Il margine di miglioramento è dunque chiaro anche da noi. Anche per quanto riguarda i tempi l’iniziativa è molto ragionevole: nei 25 anni previsti per la transizione, il 5% di aziende agricole toccate dall'iniziativa avrà sufficiente tempo per adeguarsi alle nuove normative».
Gli standard Bio richiesti comportano maggiori costi di produzione. Come si giustificherebbe un rialzo dei prezzi di molte derrate alimentari?
«Anche gli allevamenti intensivi ed un eccessivo consumo di prodotti animali hanno un costo elevato, ma è meno visibile. I danni ambientali e climatici ricadono infatti sulle spalle dell’intera collettività e delle future generazioni, non sulle spalle di chi li causa. Con l’accettazione dell’iniziativa si potrà internalizzare almeno parte di questi costi. Insomma: i prodotti animali devono costare il giusto! L’aumento dei prezzi dei prodotti di origine animale sarà però tutto sommato contenuto considerato il beneficio che si avrà. Il Consiglio federale stima l’aumento al 5-20%. Tra l’altro oggi nelle economie domestiche il 30% degli alimenti finisce nel cestino sotto forma di food waste: il leggero aumento dei costi può facilmente essere compensato con la riduzione dello spreco. A tutto vantaggio dell’ambiente ma anche del borsellino».
Con l’accettazione di questa iniziativa il timore dei contrari è che ci saranno sul mercato meno prodotti regionali e più importazioni. Non c'è il rischio di dover aumentare la quota di alimenti provenienti dall’estero a scapito degli agricoltori svizzeri?
«No, perché l’iniziativa prevede la clausola d’importazione, che applica gli stessi standard anche ai prodotti di provenienza estera. Impedendo l’importazione di merci a basso costo e di bassa qualità, come ad esempio di polli provenienti dagli allevamenti intensivi brasiliani, si rafforza l’agricoltura nazionale e i suoi prodotti di qualità. Ad approfittarne saranno soprattutto le aziende di piccola e media dimensione, che oggi soffrono per la pressione sui prezzi della grande distribuzione e per i prezzi più vantaggiosi che le grandi aziende agricole industrializzate possono offrire. Spesso appunto a scapito del benessere degli animali».
L’iniziativa, secondo i contrari, avrebbe ripercussioni in vari ambiti, tra cui le esportazioni e il consumo di carne in Svizzera. Non c'è il rischio di mettere in difficoltà un’intera filiera?
«Gli scenari apocalittici disegnati dai contrari sono contraddetti dagli studi dello stesso Consiglio federale. L’iniziativa toccherà solo gli allevamenti intensivi, il 6% delle aziende agricole svizzere, mentre andrà a vantaggio di tutte le aziende di famiglia in cui già oggi il benessere degli animali viene tenuto in giusta considerazione. E se l’iniziativa porterà ad un minore consumo di carne, ancor prima che il clima ne gioverà la nostra salute: in media in Svizzera consumiamo 780 grammi di carne la settimana, una quantità di tre volte superiore a quella raccomandata dalle autorità sanitarie!».
Consiglio federale e Parlamento temono che garantire il rispetto di standard più severi per le derrate alimentari importate sarebbe estremamente difficile e costoso. Come avverrebbe il controllo sulle importazioni?
«Già oggi è possibile acquistare prodotti d’importazione certificati, ad esempio con la Gemma Bio Suisse (il marchio che garantisce standard minimi di produzione già al di sopra della legge attualmente in vigore). Sono normative severe, e i controlli sono regolari ed efficaci. Allo stesso modo si potrebbe controllare le aziende estere. La clausola d’importazione è essenziale per non sfavorire le aziende svizzere e va anche a vantaggio dei consumatori e delle consumatrici. Sono persuasa che una buona parte delle persone non comprerebbe carne e prodotti animali low cost di provenienza estera, se sapessero delle condizioni in cui sono tenuti gli animali».

Quadri: «Ci faremmo male da soli perché crescerà la dipendenza dall’estero»
L’iniziativa riguarda soprattutto le aziende di dimensioni industriali. È davvero giustificabile, a fini economici, l’allevamento intensivo praticato dalle grandi imprese in Svizzera e all’estero?
«L’iniziativa riguarda in generale il settore agricolo e l’approvvigionamento alimentare della Svizzera, oltre a tutti i consumatori del nostro Paese. Parlare di allevamento intensivo in riferimento alla realtà elvetica è fuori luogo. La Svizzera dispone della legge sulla protezione degli animali più severa del mondo. L’allevamento che non rispetta il benessere degli animali è già vietato. Siamo inoltre l’unico Paese al mondo a regolare per legge il numero massimo di animali per azienda. È poi del tutto illusorio pensare che un’eventuale accettazione dell’iniziativa possa avere un’influenza all’estero, dove l’allevamento intensivo è davvero una realtà. Come troppo spesso accade, ci faremmo male da soli. E saremmo gli unici a farci male».
Tuttavia, le statistiche dicono altro: ad esempio, pochi animali da reddito - in particolare il pollame - hanno un regolare accesso a spazi esterni.
«Queste statistiche sono errate. Da oltre 25 anni la Confederazione promuove sistemi di stabulazione particolarmente rispettosi degli animali e le loro uscite regolari all’aperto. I dati dicono che il 78,1% di tutti gli animali in Svizzera è allevato nel rispetto di questo programma volontario per il benessere animale. Il dato poi cambia a seconda del tipo di bestiame: specie diverse non possono essere paragonate «uno ad uno». Le famiglie contadine si prendono cura dei loro animali giorno dopo giorno con grandi conoscenze, impegno e volontà».
L’iniziativa prevede severe condizioni anche per i prodotti importati. Ciò non potrebbe favorire il mercato interno dal momento che verrebbe vietata l’importazione di carne a basso costo che non rispetta gli standard minimi?
«Imporre le condizioni previste dall’iniziativa anche ai prodotti importati comporterebbe la violazione e quindi la disdetta di accordi commerciali internazionali. Dunque, semplicemente, non verrebbe fatto. Di conseguenza la maggioranza dei cittadini, confrontata con l’esplosione del costo della vita, dovrà rinunciare ai prodotti locali e comprare quelli stranieri. Nei Cantoni di frontiera come il Ticino, poi, ciò si tradurrebbe in un’ulteriore impennata del turismo della spesa in Italia».
I termini transitori potrebbero arrivare fino a 25 anni: non si tratta di un periodo sufficiente per attuare i cambiamenti necessari?
«Le conseguenze di un’accettazione dell’iniziativa si farebbero sentire quasi immediatamente: le prime stalle dovrebbero essere rinnovate già nell’anno successivo al voto. Chiunque volesse rinnovare la stalla o costruirne una nuova dovrebbe quindi adeguarsi praticamente da subito, altro che 25 anni. L’iniziativa costituisce un attacco frontale al settore primario e a chi ci lavora. Nel nostro Paese, negli ultimi 30 anni sono scomparse 30 mila aziende agricole. Se l’iniziativa entrasse in vigore, altre 33 mila dovrebbero o ridurre il numero di animali, o costruire nuove stalle con i costi e le difficoltà anche pianificatorie che ne derivano. Si stimano maggiori costi tra 400 milioni e 1.1 miliardi di franchi. Le famiglie contadine non nuotano nell’oro. L’iniziativa colpirebbe la produzione indigena. Farebbe, di conseguenza, aumentare la dipendenza dall’estero. Si vede che a certuni la crisi energetica non ha insegnato nulla. Forse in certi ambienti, disconnessi dalla realtà, si crede che i generi alimentari si materializzino da soli sugli scaffali dei negozi. Non è così. A sostenere questa iniziativa è poi la stessa area politica che perora la protezione ad oltranza del lupo, che fa strage di animali da reddito. Quindi, forse, il «benessere» di questi ultimi ai loro sedicenti paladini non interessa poi molto».
Con questa iniziativa non ci sarebbe una migliore qualità dei prodotti nel piatto?
«L’iniziativa pretende di fatto di iscrivere nella Costituzione l’obbligo di ottemperare ai requisiti del marchio Bio Suisse, che tra l’altro è un marchio privato. Ma il consumatore che lo desidera può già scegliere questi prodotti, pagandone il prezzo. L’iniziativa costringerebbe tutti a farlo, eliminando la libertà di scelta. La sua accettazione causerebbe un aumento massiccio del prezzo degli alimenti di origine animale, con rincari fino al 40%. Si calcolano, per una famiglia, maggiori spese annue di 1.800 franchi. I promotori dell’iniziativa vogliono impoverire sempre più i consumatori. Costoro mirano a rendere la carne un lusso per ricchi. E non solo la carne: sarebbe toccata una grande varietà di prodotti. Compresa, ad esempio, la pasta all'uovo. Dietro ci sta un atteggiamento profondamente antisociale».
