L'intervista

«Franz Carl Weber di nuovo in Ticino? Vorremmo, ma per ora è un no»

A tu per tu con Roger Bühler, amministratore delegato di una delle aziende più conosciute e mitizzate
© KEYSTONE / GAETAN BALLY

A colloquio con il dirigente di una delle aziende elvetiche più conosciute e mitizzate, fra aumento dei prezzi, sogni infantili e un’attenzione sempre più grande da parte della clientela all’impatto sociale e ambientale dei giochi scelti. Dici Natale e la mente corre a Franz Carl Weber, simbolo elvetico del balocco. Il CEO Roger Bühler ci accoglie nel quartiere generale di Altstetten, sede anche del Museo dei giocattoli di Zurigo.

Signor Bühler, quale giocattolo spera di trovare sotto l’albero di Natale?
«Un modello Lego del Camper van Volkswagen T2 o della chitarra Fender. Poco fa ho finito di costruire una Ford Mustang».

Insomma, è un vero fan dei modellini Lego.
«Sì, da quando ero piccolo».

Allora si sarebbe potuto immaginare di diventare il CEO di Franz Carl Weber?
«No. Il mio sogno era diventare poliziotto o dentista. A dire il vero, non ho mai saputo quale fosse il posto giusto per me. E la cosa divertente è che nemmeno adesso lo so. Sono le sfide ad attrarmi».

L’azienda era con le spalle al muro, con mancati guadagni e costi troppo alti. Bisognava ottimizzare. È un paradosso, ma la pandemia ci ha dato una mano

E qual è stata la sfida che l’ha fatta giungere a Franz Carl Weber nel 2020?
«La ristrutturazione aziendale. L’azienda era con le spalle al muro, con mancati guadagni e costi troppo alti. Bisognava ottimizzare. È un paradosso, ma la pandemia ci ha dato una mano: durante la crisi si sono potuti fare grandi passi che altrimenti sarebbero stati fatti in 2-3 fasi diverse. Ad esempio, fino a tre anni fa, degli ordini per le filiali se ne occupavano i loro dirigenti. Con un assortimento di circa 18.000 articoli, con 12.000 novità all’anno, una persona non può avere tutto sotto controllo. Una macchina sì. Sa cosa si vende bene e cosa no. Ecco perché abbiamo investito molto nell’automatizzazione. A volte un sistema digitale sa fare cose che l’essere umano non sa fare».

Certo il romanticismo in questo discorso viene a meno.
«Sicuramente. Il romanticismo e l’empatia sono invece concetti che giocano un ruolo molto importante in negozio, fra venditori e clienti».

Quali sono gli articoli più venduti per questo Natale?
«Classici come le bambole, i giochi di società o i puzzle. I clienti oggi ad ogni modo fanno più attenzione all’impatto sociale e ambientale dei giochi che comprano, ad esempio scegliendo articoli costruiti in istituzioni non profit o con materiale riciclato».

Da piccolo giocavo con una bambola. Ero l’unico bimbo nel quartiere a farlo. E la cosa non mi toccava. Per i miei genitori andava bene così, e nessuno ne faceva una questione politica

Parlando di sostenibilità, inclusione e diversità, il Governo spagnolo ha imposto un divieto di pubblicità di giocattoli con stereotipi specifici di genere (come il rosa è per le bambine, il blu per i bambini). Regole simili sono già in vigore in Francia. Ne abbiamo bisogno anche in Svizzera?
«Decisamente no. Ma il cliente e i suoi desideri sono decisivi. Produttori e fornitori devono adattarsi. C’è chi lo fa già molto bene e cerca di distinguersi dalla concorrenza con questi temi. Si potrebbe parlare per ore di questo argomento, ma mi chiedo: dove inizia la sensibilizzazione? Dai genitori, dal produttore o dal negoziante? Ed è davvero così terribile se le cose rimangono come sono? Da piccolo giocavo con una bambola. Ero l’unico bimbo nel quartiere a farlo. E la cosa non mi toccava. Per i miei genitori andava bene così, e nessuno ne faceva una questione politica».

Secondo l’associazione svizzera dei giochi, l’anno scorso è stato un buonissimo anno. Come si sta sviluppando l’anno in corso?
«Stabile, con una lieve caduta degli acquisti. Nel 2020 e 2021 il settore ha approfittato della pandemia. I giochi di società e i puzzle hanno registrato un boom. Chi pensava che la tendenza continuasse quest’anno si è però illuso. Anche se questo 2022 è comunque migliore del 2019. Ma prima di trarre conclusioni bisogna aspettare la fine di dicembre, che nel nostro settore è fondamentale: in un mese viene raggiunto un quarto del fatturato annuale. Ma penso che chiuderemo bene l’anno».

L’inflazione quindi, attualmente, non sta rovinando gli affari di Natale?
«L’inflazione è del 3% ora in Svizzera. A influenzare gli acquisti sono i media, che sottolineano continuamente quali prezzi aumentano. In primavera si è iniziato a parlare molto del prezzo dell’energia. A fine marzo, il clima di fiducia dei consumatori ha raggiunto un record negativo. In tutti i settori hanno speso il 30% in meno rispetto allo stesso periodo del 2020 e 2021. Da luglio i titoli negativi nei media hanno avuto meno effetto, è subentrata una certa assuefazione, e la vita ha continuato normalmente. Quello che ora ci sta dando filo da torcere è il rincaro dei giocattoli. In media, rispetto a un anno fa, il prezzo di vendita è salito del 10%. E non è chiaro perché, ad esempio, il prezzo consigliato per un giocattolo nell’Eurozona sia di 39 franchi, mentre in Svizzera sia di 49 o 54 franchi. I produttori americani hanno aumentato i prezzi al massimo del 5%. Poiché l’inflazione è molto più alta in Europa, alcuni produttori europei cercano di approfittare della Svizzera, dove il potere d’acquisto è ancora alto, per ottimizzare i loro profitti».

In generale abbiamo abbassato i riscaldamenti, e le vetrine non sono più illuminate di notte. L’anno prossimo calcoliamo un aumento della spesa per l’energia del 25%

E come state vivendo la crisi energetica?
«In generale abbiamo abbassato i riscaldamenti, e le vetrine non sono più illuminate di notte. L’anno prossimo calcoliamo un aumento della spesa per l’energia del 25%. In questo contesto, ci si può chiedere se il rapporto tra i profitti dei fornitori di energia elettrica e il prezzo applicato ai consumatori sia ragionevole. Non ne sono sicuro».

Siete colpiti dall’attuale mancanza di manodopera qualificata?
«Se una volta ricevevamo 100 candidature spontanee al mese, oggi ne riceviamo 10. Nel periodo prenatalizio passiamo da 200 a 360 collaboratori, ma abbiamo potuto coprire tutti i ruoli. Si nota che molti giovani hanno idee fisse su quale lavoro piace o non piace loro. Alcuni preferirebbero rimanere senza lavoro piuttosto che accettare un posto che non soddisfa tutte le loro aspettative. Questo mi preoccupa un po’, perché le richieste assolute o troppo idealistiche non ci portano da nessuna parte come società».

Poche settimane fa c’è stato il Black Friday. Lei ha mai comprato qualcosa durante questa giornata di saldi?
«No. È un male necessario richiesto dai clienti e alimentato dai venditori internazionali. Ma a preoccuparmi di più sono le promozioni sui giocattoli dei grandi rivenditori in questo periodo. Non offrono consulenza né assistenza: alla fine il cliente è svantaggiato».

Da quando nel 2018 l’azienda è tornata in mani svizzere, sono state aperte varie filiali. Con il boom delle vendite online è la strategia giusta?
«Contiamo molto sulle nostre 23 filiali. I clienti cercano esperienza e consiglio. Ovunque si riesca a ottenere un affitto ragionevole, i negozi rendono. Inoltre, abbiamo investito molto nel nostro nuovo negozio online, che sta dando i suoi frutti».

FCW tornerà in Ticino?
«Vorremmo. Ma purtroppo per il momento no. Il motivo è la differenza di gamma di prodotti tra la Svizzera tedesca e quella francese, dovuta all’influenza dei media francesi sui clienti francofoni. Lo stesso accadrebbe con i clienti ticinesi. Per uno o due punti vendita in Ticino, il santo non vale la candela. Ciò che potrebbe presto diventare realtà è la creazione di punti vendita in alcune stazioni di servizio».

Il Franz Carl Weber a Lugano, tanti, tantissimi anni fa. © CdT/Archivio
Il Franz Carl Weber a Lugano, tanti, tantissimi anni fa. © CdT/Archivio

Perché Franz Carl Weber è un mito?

Come ha fatto Franz Carl Weber, azienda che aprì nel 1881 nella Bahnhofstrasse di Zurigo il suo primo negozio, a entrare nei cuori di generazioni di svizzeri? E che significato ha il negozio per il consumatore medio elvetico? Gianni Haver, professore di sociologia all’Università di Losanna, lancia un’ipotesi: «Ai bambini di oggi il marchio non dice più così tanto. Sono i genitori, cresciuti negli anni in cui non si andava ancora nei centri commerciali in periferia e non si facevano ancora acquisti online, a far vivere il mito di Franz Carl Weber. Chi ha vissuto l’abbondanza degli anni ’70 e ’80, si ricorda degli incontri spesso casuali con il negozio, passeggiando per il centro città. Le vetrine animate, alle quali si appoggiavano i nasi, lo sguardo sognante. E ciò non valeva solo per i bambini svizzeri. Io sono cresciuto in Italia, ma uno dei giocattoli faro della mia infanzia era un fortino dei cowboy comprato al Franz Carl Weber di Lugano». Un altro elemento importante è la personalizzazione, aggiunge Haver: «Franz Carl Weber in un certo senso è un nome, non un marchio. Il signor Weber è in qualche modo diventato il Babbo Natale svizzero. I colori del logo, poi, sono un chiaro riferimento alla bandiera nazionale, simbolo di qualità». La scelta di rimanere fedeli a un logo può confermare la volontà di farsi riconoscere dalla generazione di bambini precedente «e innescare nell’adulto la stessa emozione che sentiva in negozio da piccolo», conclude il professore dell’UNIL. Alzi la mano chi non conosce il famoso cavallino.