I «giochini» assaltano il museo medievale

Svitto, patria e cuore dei valori rossocrociati. E - in particolare - del Forum della storia svizzera, che ospita una mostra permanente dedicata all’origine della nascita della vecchia Confederazione, le cui radici affondano fin nel lontano Medioevo. Ma chi l’avrebbe mai detto che gli imponenti cavalieri in sella ai loro destrieri si sarebbero, un giorno, visti rubare la scena da... Super Mario? E dagli alieni cattivi di Space Invaders? E pure da Lara Croft! È quel che sta succedendo proprio ora, grazie all’esposizione appena allestita e intitolata «Games» aperta fino al 13 marzo 2022 nel seminterrato. La mostra è consacrata al mondo del divertimento elettronico. Quell’Amiga 500 (fra l’altro esposta insieme a PlayStation e Nintendo Wii) che molti ricordano di aver sfruttato in lunghe ed estenuanti sessioni di gioco, oppure il Nintendo NES a otto bit con la grafica a cubettoni, si possono ammirare sotto una teca trasparente. Ma il Museo non si limita a questo, dov’è il divertimento se tutto è sottovetro? Giusto, Sara? «Esatto, proprio così!», esclama la guida, Sara Orfali, dottoressa di ricerca in storia medievale, che da cinque anni segue le classi ticinesi nel percorso della mostra permanente. («Sì, qualcosa di molto diverso da quel che abbiamo qui», ammette divertita). «Il divertimento è che qui ogni gioco si può provare», compresi i vecchi «cassoni» delle sale giochi. Rampage, Pac-Man, Space Invaders... ma questa volta le macchinette «mangiasoldi» non chiedono monetine. Niente «Insert coin», per intenderci. Basta premere un pulsante. Fantastico! «I nostri visitatori possono provare questi e tanti altri titoli», conferma Orfali. Ovviamente, rispettando anche gli altri che sono desiderosi di metterci le mani. «Al termine della presentazione, lasciamo circa una mezz’ora alle scolaresche, prima di passare al laboratorio dedicato alla progettazione di livelli di gioco con Super Mario Maker» (guarda il video allegato a quest’articolo).
Ma attenzione. Perché c’è anche un altro limite. Alcuni giochi (quelli degli anni Duemila) sono contrassegnati dall’indicazione «PEGI»: «Counter Strike e Tomb Raider hanno un limite di età per i giocatori. Chi è al di sotto dei 14 o 16 anni non ci può giocare», spiega Sara Orfali. La mostra, infatti, nei numerosi pannelli e filmati informativi (tra l’altro tutto è perfettamente tradotto in quattro lingue, le tre nazionali più l’inglese), oltre a presentare grafici e numeri dedicati al pubblico dei videogiochi in Svizzera, mette al centro anche una serie di temi «caldi», chiamati sulle schermate interattive «Tossici». Uno di questi, ad esempio, è legato al livello di violenza di alcuni titoli come pure alle tappe che hanno poi portato le case editrici di giochi alla convenzione PEGI sulle categorie dell’età. «E pensare che in realtà tutto è iniziato già negli anni Novanta, con il popolarissimo titolo dell’epoca Mortal Kombat, un videogioco di genere ‘picchiaduro’ per le console a 16 bit. Non era nemmeno un gioco con grafica tridimensionale!».
Già, la grafica. Una componente di primo piano nell’interazione dei videogiochi. Un elemento trainante per le 2,5 miliardi di persone che ogni giorno accendono il loro smartphone, console, computer ed entrano nel mondo virtuale fatto di icone, personaggi incredibili, universi dalla fisica più strana. Altro che «Ready Player One» o «Metaverso» di Mark Zuckerberg, il multimiliardario re dei social. Qui stiamo parlando di un terzo della popolazione mondiale che, già oggi, si lascia trasportare, per motivi diversi, dalla magia di questi reami fantastici. Un affare di miliardi, superiore a quello offerto dal cinema.
Ne sarà pur passata di acqua sotto i ponti, da quando, negli anni Cinquanta, il fisico statunitense William Higinbotham architettava quel che può essere definito l’antenato di tutti i giochi, chiamato con molta fantasia «Tennis for Two». Forse preso dalla noia grigia di un laboratorio pieno di oscilloscopi con lo scopo di progettare un razzo migliore, o qualche altro genere di missile supersonico, chissà... Fatto sta che il denominatore comune, dopo tutti questi anni, è sempre lo stesso: il divertimento.
Il percorso dell’esposizione è diviso in decadi e si inizia proprio dagli anni Settanta con «Pong», il gioco ispirato al suo antenato e commercializzato nel 1972 per i salotti dell’epoca, da collegare al televisore. «Questa è stata una bella sfida per i nostri tecnici: riuscire a trovare dei televisori adatti a far funzionare questi vecchi giochi». Le «stanze» delle varie decadi mettono in scena l’ambiente ideale delle postazioni di gioco (che, come detto, nella maggior parte dei casi possono anche essere «sfruttate» dai visitatori) e attraversano gli anni Ottanta, Novanta, Duemila e, in ultima istanza, anche la decade degli anni Duemiladieci, fino al 2019, appunto. Ogni stanza propone una parete colorata con le tinte della sua epoca (dagli arancioni dei ‘70 ai fluorescenti dei ’90...), mentre un grande schermo tattile presente in ognuna di queste fornisce, oltre a una serie di dati e statistiche, anche molti spunti su temi di discussione. Dal ruolo delle donne (che con Lara Croft in Tomb Raider passano da semplici «oggetti» o «principesse» da salvare a vere e proprie protagoniste), fino alla dipendenza da videogiochi, una patologia che l’Organizzazione mondiale della sanità ha inserito in una lista di malattie riconosciute (cosa che, ovviamente, non fa molto piacere alle case produttrici di giochi). Fino all’ultima novità, più recente, che probabilmente potrebbe scatenare un dibattito anche sulla scena politica, con l’eliminazione delle cosiddette «loot box» che la Svizzera vorrebbe proibire. «Sono come delle scatole del tesoro che i giocatori possono acquistare e che possono contenere outfit, equipaggiamento, armi che possono dare vantaggi». La critica verte sulla mancanza di trasparenza e sulla poca considerazione delle emozioni dei giocatori, Con le valute virtuali dei giochi che oscurano il valore reale. Da qui, la possibile classificazione come «gioco d’azzardo».

Con miliardi di giocatori nel mondo, l’industria dei videogiochi è diventato un affare superiore a quello della cinematografia. Il coinvolgimento e la complessità della narrazione lo hanno portato a media favorito indiscusso in tutto il mondo. Attraversando le varie stanze della mostra, questo aspetto salta decisamente all’occhio. Ma, paradossalmente, l’industria del settore sembra piuttosto indietro in molti Paesi. In Svizzera, ad esempio, parecchie iniziative sono portate avanti da sviluppatori indipendenti. Piccoli gruppi di persone che, su base più o meno volontaria portano avanti un progetto. «Le curatrici della mostra hanno voluto dare parecchio spazio anche a molti sviluppatori svizzeri, come pure a persone nate e cresciute in Svizzera che sono partite poi all’estero per intraprendere una carriera in questo settore», indica Orfali passando in rassegna le figure tridimensionali a grandezza naturale (e magari qualcosa in più) dei vari personaggi nell’ultima sala, dedicata agli anni Dieci del Duemila e indicando una parete piena di tablet, con i quali i visitatori possono interagire ascoltando le testimonianze (sottitolate in quattro lingue, ovviamente).
A fianco, tre postazioni permettono di giocare a tre distinti titoli presentati dalle scuole di Lucerna, Zurigo e Losanna. Il titolo che spicca su tutti è Mundaun. Realizzato da una persona sola, Michel Ziegler, nell’arco di due-tre anni e ispirato a un paese che in passato esisteva davvero. Genere horror/mistero, con le voci dei personaggi in romancio stretto, vede il giocatore impersonare il protagonista della vicenda, un nipote che dalla città raggiunge il paesello tra le montagne per risolvere il mistero della scomparsa di suo nonno. Ricco di disegni trasformati poi in un’ambientazione tridimensionale, è ispirato anche alle leggende locali. Lo schermo subito a fianco è decisamente più colorato: si tratta di «Cubico», un gioco astratto e fortemente influenzato dallo stile grafico «Memphis», tipico degli anni Ottanta/Novanta. Essenzialmente composto da tessiture composte da colori e forme poligonali astratte. Più adatto ai piccoli l’ultimo titolo, che fa impersonare il giocatore in un custode che deve prendersi cura di... un camposanto. Realizzato con una grafica cubettosa d’altri tempi, ha un piglio divertente e sfrenato.
L’ultima stanza, invece, è dedicata al futuro e al ruolo dei giochi nella vita quotidiana, soprattutto nel mondo della formazione, della didattica e dell’apprendimento. Qui c’è pure uno dei tanti tablet con la testimonianza dello sviluppatore Stefano Maccarinelli, con una riflessione su quanto sia cambiato il modo di raccontare storie nei videogiochi. E di come queste nuove modalità abbiano poi influenzato tutta la produzione mediale. Quest’ultima stanza ha degli enormi specchi alle pareti. Uno stimolo (simbolico) alla riflessione e all’esplorazione del mondo dei videogiochi su aspetti sociali e temi di attualità: cosa determina il fascino dei videogiochi? I giochi digitali possono essere utili per la formazione scolastica o gli anziani? Che storie raccontano?