Ignazio Cassis: «Noi, in Svizzera, abbiamo sempre affrontato le crisi senza altoparlanti»

Dalla Svizzera a Venezia, poi al mondo: Gaza, Russia, Cina, Stati Uniti e la delicata questione dei dazi. Il «ministro» degli Esteri Ignazio Cassis, da Palazzo Trevisan degli Ulivi, ripercorre le sfide e le tensioni in un contesto internazionale sempre più frammentato. «L’incontro a Ginevra tra Cina e Stati Uniti dimostra che siamo sulla strada giusta».
Cosa ha convinto il Consiglio federale a non abbandonare Palazzo Trevisan degli Ulivi?
«Direi due aspetti. Il primo: Venezia è una splendida vetrina per presentare la Svizzera nel mondo, sia in termini di cultura che di diplomazia, di scienza, di innovazione. E secondo, la Confederazione già possiede questo piano di Palazzo Trevisan. Sarebbe peccato non continuare ad usufruire di un gioiello simile».
Che valore ha l’italianità elvetica per Ignazio Cassis?
«Rappresenta uno dei quattro cuori pulsanti della Svizzera. Il cuore dice più della mente: racchiude le emozioni, l’umore ed è una ricchezza per il Paese intero. All’estero rappresenta un legame fantastico, perché siamo una sorta di pezzo di Italia in Svizzera e questo crea un legame fortissimo con i nostri vicini. Così come la Svizzera francese con la Francia e la Svizzera tedesca con la Germania e l’Austria».
Allargando lo sguardo al di fuori dai confini, c’è l’Europa: dopo l’abbandono dell’accordo quadro è stata raggiunta una nuova intesa con l’UE. Si tratta, oggi, del miglior accordo possibile?
«Il Consiglio federale ha visto i risultati di questo accordo prima di Natale e ne è stato soddisfatto. Il mandato negoziale non solo è stato raggiunto, ma addirittura superato. Se pensiamo al 2021 quando avevo proposto al Consiglio federale di staccare la spina da quell’accordo quadro di cui si era tanto parlato, ci rendiamo conto che ora siamo veramente in una situazione migliore. A posteriori è stato un bene aver tolto la presa perché siamo tornati sulla via bilaterale, quella che ci ha garantito 25 anni di stabilità e di sicurezza. Abbiamo raggiunto un risultato negoziale davvero buono».
Sulla base di quanto avvenuto dopo il 2021, la Svizzera non potrebbe rifiutare questo pacchetto per ottenere condizioni migliori in un prossimo futuro?
«Ognuno si assume le proprie responsabilità: il primo passo è che il Consiglio federale sia convinto dell’accordo. Questo era il mio compito, convincere il Governo che, con questi risultati, il passo è da fare. Ci siamo riusciti. Quando passeremo il dossier alle Camere federali, dovrà esserne convinto il Parlamento e alla fine dovrà esserne convinto anche il popolo. Io credo che con quanto abbiamo oggi sul tavolo non dobbiamo arrossire, ma essere fieri di questo risultato».
Si tratta dell’ultima chiamata da Bruxelles?
«Io non sono così fatalista, la politica è fatta di onde e contro onde, quindi mai dire mai. Però in questo momento, se pensiamo che è vent’anni che stiamo discutendo di questo tema, io credo che il popolo abbia una bella proposta sul tavolo».
Il Consiglio federale ha deciso di optare per il referendum facoltativo. Pur basandosi su una perizia giuridica, alla fine, però, si è trattata di una decisione politica.
«Sì, è stata effettivamente una decisione politica. Dovendo escludere il referendum obbligatorio (perché nel pacchetto di accordi non sono previste modifiche costituzionali) restava soltanto l’opzione del referendum facoltativo oppure quella forma speciale di referendum obbligatorio detto “sui generis”. Quest’ultimo però non è scritto da nessuna parte, se non nei commentari giuridici. Dunque, occorreva un’interpretazione politica. Il Consiglio federale ha approfondito e ponderato tutti gli aspetti ed è arrivato alla conclusione che i criteri sui generis non sono dati e che per coerenza istituzionale era giusto proporre il referendum facoltativo».
La decisione di evitare la doppia maggioranza e di scegliere la via più semplice non rischia di essere percepita come un segnale di debolezza del Governo?
«No, io invito la popolazione a interpretarlo per quello che è: un segno di forza istituzionale per restare coerenti con le decisioni simili del passato, in sintonia con l’obiettivo - raggiunto e iscritto nero su bianco nel mandato negoziale - che i risultati non avrebbero dovuto necessitare un cambiamento della Costituzione».
I prossimi tre anni saranno molto intensi: nel 2026 la presidenza dell’OSCE, nel 2027 sarà presidente della Confederazione, nel 2028 dovrà verosimilmente difendere gli accordi con l’UE in votazione popolare. In che modo pensa di poter fare la differenza?
«Il prossimo anno, con la presidenza dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, la Svizzera dà un chiaro segnale al mondo. Vogliamo essere utili in un momento difficilissimo. Non c’è di sicuro la coda di candidati e il fatto che ci abbiano chiesto di farlo la dice lunga anche sulla percezione di utilità che gli Stati hanno della Svizzera. Ho sempre detto: “Noi restiamo un Paese sicuro, prospero e indipendente se siamo utili al resto del mondo” e credo che questa presidenza sia esattamente il risultato di questa logica. Poi nel 2027 dovrebbe esserci la presidenza della Confederazione, ma io direi di andare un passo per volta. Con i tempi che corrono già non so cosa succede la settimana prossima, figuriamoci nel 2028 (ride, ndr)».
Il mondo, tra conflitti, tensioni e crisi è sempre meno ordinato. Come si orienta il «ministro» degli Esteri in un contesto così instabile e che cambia così rapidamente?
«È una prova difficile per tutti i governi al mondo. Avvertiamo instabilità, insicurezza e tensione. In Svizzera abbiamo sempre affrontato le crisi “a testa fredda”, senza altoparlante e utilizzando la bussola che la Costituzione ci dà. Questo ci permette di sapere cosa vogliamo e l’abilità sta nell’essere capaci di trovare con flessibilità la buona strada. Trovare la strada giusta significa anche essere utili agli altri, e penso che l’incontro a Ginevra tra Cina e Stati Uniti, che abbiamo contribuito a organizzare, lo dimostri bene».
I rapporti con gli Stati Uniti sono tesi. Come può riuscire la Svizzera a non fare concessioni a Washington?
«Il Consiglio federale sta agendo in modo molto coordinato: mentre la presidente della Confederazione (Karin Keller-Sutter) e il vicepresidente (Guy Parmelin) erano a Washington a parlare con gli Stati Uniti, io ero in Cina a parlare con Pechino. Oltre a parlare di Cina e Svizzera, rispettivamente Stati Uniti e Svizzera, abbiamo anche creato le premesse per questo incontro. Essere utili a due potenze mondiali è, appunto, nel nostro interesse. Ci sono poi i rapporti bilaterali da risolvere. Il primo partner in assoluto, e non dobbiamo sbagliare priorità, è l’Unione Europea, il secondo sono gli Stati Uniti e il terzo è la Cina. Gli Stati Uniti rappresentano però solo un terzo del volume di scambi commerciali di quelli con l’UE. La Cina, invece, un decimo. Ma tutti e tre sono fondamentali per la nostra prosperità, indipendenza e sicurezza. Dobbiamo avere la capacità di trovare la buona strada per mantenere la situazione stabile e addirittura renderla migliore in futuro».
Berna in che modo riesce ancora a fare la differenza a livello internazionale, oggi che le grandi potenze mondiali – tra cui USA, Russia e Cina – sembrano ragionare sempre di più secondo la legge del più forte?
«Ci aiutano tre cose. La neutralità: non è un caso che questo incontro tra Cina e Stati Uniti avvenga in un Paese neutro, proprio perché tutti e due ci riconoscono un’equidistanza nei rapporti. Poi c’è la nostra grande esperienza diplomatica, che nasce un po’ anche dalla coesione nazionale interna: dobbiamo capirci in quattro lingue e dunque occorre essere diplomatici per andare d’accordo. Il terzo aspetto è il fatto di aver coltivato con questi partner rapporti stabili di lunga data. Sulla durata siamo forti: qualcuno dice perché la Svizzera è molto lenta. È vero, ma nella lentezza c’è una forza».
La pace tra Russia e Ucraina sembra ancora lontana. La Svizzera come può contribuire concretamente alla pace, se Mosca non la riconosce come mediatrice neutrale?
«Ci dobbiamo convivere. Vogliamo che la forza del diritto sia più importante del diritto alla forza, intesa come militare. Questa forza del diritto è riconosciuta da tutti gli Stati al mondo. La Svizzera si attiene alle leggi, al diritto, perché sappiamo che è l’unica protezione vera che abbiamo. Su questa base non potevamo evidentemente non sanzionare la Russia per aver violato il diritto internazionale. Ma ciò non significa che non parliamo più con la Russia. Anzi, il fatto che l’anno prossimo assumerò la presidenza dell’OSCE ha richiesto anche il sostegno da parte russa. Un sostegno che non sarebbe stato ottenuto da tutti i paesi dell’OSCE. La diplomazia è fatta anche di chiaro e scuro e non soltanto di bianchi o di neri».
Le prime trattative tra Russia e USA però hanno avuto luogo in Arabia Saudita. Giovedì ci potrebbero essere negoziati diretti tra Mosca e Kiev a Istanbul.
«Quando abbiamo fatto la conferenza sul Bürgenstock era già previsto che una seconda conferenza avesse luogo a Riad. Ben venga questa iniziativa, e anche noi siamo presenti in questi sforzi. Il fatto che non ci siano stati eventi più spettacolari non significa che non stiamo lavorando. Spesso l’evento spettacolare è il risultato di uno o due anni di lavoro. La situazione è tutt’altro che facile, ma vorrei avere anche un po’ di ottimismo. Gli Stati Uniti che ora si sono messi in gioco stanno rimescolando le carte e facendo apparire degli spiragli. Noi lavoriamo a questi spiragli».
Qual è il valore della neutralità in questo nuovo disordine mondiale e perché un’interpretazione più rigida della neutralità, come quella proposta dall’iniziativa popolare sostenuta dall’UDC, non sarebbe adatta a salvaguardare gli interessi svizzeri?
«L’essere utile a terzi ci protegge dall’aggressione di terzi nei nostri confronti, in questo senso la neutralità è uno strumento forte. Ci permette di fungere in maniera credibile da piattaforma di dialogo, di mediazione, di facilitazione. Perché non cambiare la neutralità? Perché non si cambiano mai in corsa i cavalli vincenti: da 180 anni viviamo in pace, prosperità e sicurezza con questa neutralità».
Lei ripete spesso che «Neutralità non significa indifferenza». La situazione umanitaria a Gaza è catastrofica. Israele sta violando il diritto internazionale?
«Tutto il Consiglio federale è colpito dalla tragedia umana che si sta consumando, in particolare a Gaza, ma anche in Cisgiordania e negli altri Territori occupati. Questo ci tocca profondamente e ci porta a mettere in gioco tutta la forza che abbiamo per dare assistenza immediata ai civili, per cercare una soluzione per il blocco imposto da Israele e far riaprire i corridoi umanitari verso il territorio. E anche per sostenere un processo di cessate il fuoco duraturo che porti a un dibattito, a una discussione politica tra i Paesi Arabi e Israele su come trovare una situazione sostenibile nel tempo».
Perché il Consiglio federale non pensa ad attivarsi direttamente, come fatto ad esempio per la conferenza sul Bürgenstock per l’Ucraina?
«Non solo lo pensa, ma lo fa. Lo scorso mese di ottobre, dal Consiglio di sicurezza dell’ONU, ho richiamato Israele alle sue responsabilità come nazione occupante, quando ho presieduto alcune riunioni su questo tema. Ho detto e lo ripeto oggi: Israele ha il dovere di garantire l’assistenza umanitaria a queste persone. La Svizzera inoltre paga il materiale umanitario: lo scorso anno abbiamo dato 100 milioni di franchi dei nostri cittadini, dei contribuenti, per portare, cibo, tende, il materiale di prima necessità. Adesso lottiamo affinché questo materiale possa entrare nel territorio. Siamo molto presenti, ma sempre in modo discreto perché è anche questa una delle qualità per cui gli altri Stati ci chiedono di intervenire».
Amnesty accusa Israele di genocidio, Il segretario generale dell’ONU ha definito Gaza «un campo di sterminio». Quali strumenti intendono utilizzare il «ministro» degli Esteri e il Consiglio federale per intervenire nei confronti di Israele?
«Quelli di cui ho parlato prima: sul piano bilaterale costantemente essere chiari con Israele sul fatto che è loro responsabilità fornire l’assistenza umanitaria, mentre sul piano multilaterale creare questa chiarezza sul necessario rispetto del diritto umanitario internazionale. Sempre sul piano internazionale abbiamo avuto per esempio il mandato di fare in Svizzera una conferenza delle Alte Parti contraenti sulle convenzioni di Ginevra. Il fatto che malgrado un’ottima, intensa e accurata preparazione, alla fine non si sia riusciti a trovare un punto di intesa sufficientemente largo per ottenere un consenso superiore a 70-80 Stati, credo che purtroppo la dica lunga sullo stato di salute del mondo».