«Il sessismo non lo conoscevo, poi sono arrivata in Svizzera»

Sessismo? Discriminazione? Non in Svizzera, pensava Alexandra Dufresne. Poi, nel 2016, si è trasferita qui con la sua famiglia dagli Stati Uniti. L’insegnante di diritto a livello universitario a Zurigo è mamma di tre bambini. L’americana, co-creatrice della pagina Facebook sulle pari opportunità in Svizzera «Donne complicate», nelle sue prese di posizione non le manda a dire. Gli Stati Uniti, è il suo messaggio, non sono perfetti, ma la Svizzera in fatto di pari opportunità ha molto da imparare. Suoi testi sono stati apparsi anche su «Grok Nation», dell’attrice Mayim Bialik (The Big Bang Theory).
Agli Stati mercoledì è stata bocciata una mozione che chiedeva una campagna nazionale anti-sessismo. La sorprende che una decisione simile sia stata presa in Svizzera?
«Quello che posso dire è che noto molta pressione da parte della società civile. Lo scorso 14 giugno c’ero anche io in piazza a manifestare per i diritti delle donne. Un evento storico. C’è molta sensibilità sul tema. D’altronde nei sondaggi internazionali la Svizzera fa sovente un punteggio pessimo, piazzandosi vicino al Giappone e alla Turchia e parecchio al di sotto di altri Paesi europei. Le ultime federali sono state caratterizzate da un’ondata di elezioni femminili. Sono felice di poter assistere a questa fase di “momentum”, molto importante. Ma la Svizzera cambia in maniera estremamente lenta. E si sa: in momenti di crisi sono sempre le fasce più vulnerabili a subire i primi colpi. Le donne fanno parte di questa categoria».
Nel suo post pubblicato sul sito ha scritto di come venire a vivere in Svizzera l’abbia resa una femminista. Come è successo?
«Diciamo che negli Stati Uniti ero felicemente ignara di cosa fosse il sessismo. Ero, mi rendo conto, in una posizione privilegiata, come bianca con una buona educazione. Negli USA il nostro problema principale è il razzismo, la xenofobia. E chi appartiene alle classi sociali meno abbienti soffre per le discriminazioni che subisce. Ma io come donna bianca di ceto sociale medio-alto vivevo benissimo. Personalmente non ho mai avuto esperienze dirette con il sessismo. Cosa che invece ho vissuto appena arrivata in Svizzera, a 40 anni passati, con una bella carriera».
Ci spieghi meglio.
«Nei contatti sociali e professionali noto questa strana idea che esiste qui riguardo alle madri. Sembra che chi è madre non possa avanzare fino ad arrivare ai piani più alti della gerarchia aziendale. Ruoli con poca responsabilità o di “middle management” si addicono a donne con famiglia; altri, dove è richiesta leadership, no. E non perché si voglia essere cattivi o perché si pensi che le donne abbiano meno capacità. Vige piuttosto un sessismo di tipo paternalistico. Dal momento che sei mamma “hai altre responsabilità” e quindi “non puoi mettere tutta te stessa nel lavoro”. Così competere con gli uomini sul mercato del lavoro è impossibile. A volte ho l’impressione che si chiedano come mai lavoro, dato che anche mio marito ha una buona posizione. Ma a mio marito non lo chiedono mai. Per me, come americana, è scoccante. È così inefficiente, per l’economia e per tutti. Vuol dire lasciare fuori dai giochi la metà della popolazione. È un pregiudizio che costa caro».
È un pregiudizio che percepisce anche nelle donne?
«Non lo so. Ma so che ci sono un sacco di donne svizzere che mi scrivono ringraziandomi per raccontare della mia perplessità. E che mi dicono che io che posso parlare, dato che sono una “che viene da fuori”, una “outsider”, lo devo fare. Evidentemente chi non la vede come me finora non mi ha scritto. Comunque negli USA non ho mai incontrato una donna che mi ha detto che non sa se vuole avere bambini perché ha paura che questo possa frenare la sua carriera. Dalle studentesse con le quali lavoro sento spesso che visto che sanno che vogliono figli non intendono puntare in alto a livello di carriera. Mi spezza il cuore».
Ma in America, la patria del movimento Me Too, come funziona?
«In America bisogna distinguere fra classi: chi non ha un’educazione, chi proviene dalla fascia disagiata della società non ha una scelta: lavora e fa la mamma facendo funzionare le cose come può. Ma chi ha un’educazione ha la possibilità di negoziare. Non mi fraintenda: l’equilibrio tra vita privata e professionale non esiste da noi. Solitamente una donna in carriera lavora a tempo parziale finché i bimbi hanno 10-11-12 anni. In realtà guadagna il 60% del salario pieno, ma lavora all’80-100%. Ma lo fa per mantenere la sua posizione. Nessuno ti dice che non puoi. Qui si chiedono invece come una possa fare tutto. Ma sono problemi miei. Fammi risolvere a me la questione. Dammi la possibilità di mostrarti quale può essere la mia performance. Non precludermi delle possibilità perché sono madre. Negli Stati Uniti di fatto le donne hanno più chance».

Pensa che ci sia anche una differenza nel modo di concepire una “brava mamma”? Se si è una brava mamma si lavora poco?
«Sì e no. I genitori americani sono conosciuti per essere quasi troppo “chiocce”. La differenza sta nella relazione con il lavoro. Voi qui avete questo concetto di “tempo libero”, avete le vostre associazioni, i vostri club, che vi prendono un sacco di tempo. Io qui fino a poco fa ero in un’orchestra e sono dovuta uscire. Non avevo tempo. Ma si sa: gli europei lavorano per vivere, noi americani viviamo per lavorare. Avete questo forte senso del tempo da dedicare alla vita privata. Che è geniale. Ma che nasconde un lato meno piacevole: se una mamma ha il fuoco dentro per il lavoro viola una sorta di norma sociale».
Insomma, la legge sulla parità dei sessi svizzera non basta per lei.
«No. Negli USA se il tuo capo non ti promuove perché sei di un certo sesso tu lo porti in tribunale. Non scherzo. Non è un tabù di nessun genere. Qui sul CV devi indicare se sei sposato e hai figli. È proibito negli Stati Uniti richiedere queste informazioni. In Svizzera spesso si pensa che tutto sia bello, che la democrazia funzioni bene,... E tante cose sono davvero fantastiche qui. Ma in ambito di parità fra i sessi la Svizzera farebbe bene a confrontarsi con altre realtà all’estero. Stiamo diventando un mondo sempre più globalizzato, il mercato del lavoro è un mercato internazionale. Essere indietro di 30-40 anni rispetto agli altri non so se porterà effetti positivi. La Svizzera vive nella prosperità. Ma non sappiamo quanto ricca potrebbe essere se desse la possibilità alle donne di spaccare il tetto di vetro che sta sopra le loro teste. Altri Paesi possono contare sul 100% della loro popolazione per trovare persone che sono le più adatte per ogni tipo lavoro. La Svizzera non prende in considerazione le donne, soprattutto quelle con figli. Il mondo si trova ad affrontare molte grandi sfide: COVID-19, disuguaglianza, cambiamento climatico. Come possiamo affrontarle se non diamo a tutti la possibilità di contribuire con le proprie competenze, il proprio talento e la propria formazione? La discriminazione di genere pone la Svizzera in una situazione di svantaggio competitivo e rende molto più difficile per la Svizzera fare la sua parte nella soluzione delle grandi sfide che il mondo intero si trova ad affrontare».
Gli Stati bocciano una mozione per una campagna contro le discriminazioni
A sorpresa mercoledì gli Stati hanno bocciato, con 21 voti contro 20, una mozione di Regula Rytz (Verdi/BE) che chiedeva al Governo di realizzare una vasta campagna di prevenzione contro il sessismo. Per la risicata maggioranza la priorità va data alla lotta contro la pandemia. Una compagna contro il sessismo non può essere paragonata a quella contro il tabagismo o l’AIDS; nel primo caso le vittime possono infatti rivolgersi alla giustizia, è stato sottolineato in aula.
L’atto parlamentare, sostenuto dal Governo e dalla Commissione competente, era stato adottato dal Nazionale in estate.