L'intervista

«In un mondo che cambia in fretta, lo stallo significa fare passi indietro»

Petros Mavromichalis, ambasciatore dell'UE a Berna: «Siamo stati sempre all’ascolto delle necessità della Svizzera»
© ALESSANDRO DELLA VALLE
Luca Faranda
24.06.2025 06:00

Petros Mavromichalis, dal 1. settembre 2020, è ambasciatore dell’Unione europea in Svizzera. Dal fallimento dell’accordo quadro all’accordo appena approvato dal Consiglio federale, ha seguito tutti i negoziati. Domani (alle 18.00) sarà all’USI di Lugano per partecipare alla conferenza «Quale Europa?». Si tratterà della sua ultima apparizione ufficiale in pubblico prima di lasciare l’incarico alla fine di agosto. Lo abbiamo incontrato nella sua residenza, a Berna.

Il Consiglio federale, lo scorso 13 giugno, ha approvato il pacchetto di accordi con l’UE. A suo avviso, la Svizzera ha ottenuto tutto ciò che voleva?
«È un passo avanti molto positivo. Ma devo dire che non è una sorpresa: abbiamo negoziato per mesi, anzi anni. È il risultato di un lavoro comune. Se non avesse ottenuto quel che voleva, il Consiglio federale non avrebbe dato il suo accordo. Ma un negoziato finisce quando le due parti sono soddisfatte di quello che hanno ottenuto, sapendo che non è mai possibile ottenere il 100%. Bisogna trovare un compromesso. È così anche nella vita, non soltanto nelle relazioni tra Stati».

Se la Svizzera ha ottenuto ciò che voleva, quali concessioni ci sono state da parte dell’UE?
«Io non vorrei tanto parlare di concessioni, però siamo stati sempre all’ascolto delle necessità della Svizzera. Vogliamo che la Confederazione riprenda le nostre regole e la Svizzera ha detto sì, ma che vorrebbe avere anche un’influenza sul loro sviluppo. Per questo è stata concessa la partecipazione al “decision shaping”. La Svizzera potrà partecipare nei fori dove si discutono nuove regole.La Svizzera ha poi anche ricevuto molte eccezioni nei dossiers che per lei sono sensibili come la libera circolazione delle persone».

Non è però detto che la Svizzera voglia adottare tutte le nuove regole.
«La Svizzera ha un sistema federale, in cui Cantoni e popolo hanno la possibilità di esprimersi su un determinato tema. Anche questo lo abbiamo accettato e la Svizzera avrà fino a due anni di tempo per riprendere nuove leggi europee. Se ci dovesse essere un referendum e il popolo dice di no, anche quello lo accettiamo. Però si deve capire che se uno vuole giocare con regole diverse, allora deve anche offrire delle compensazioni per ristabilire l’equilibrio».

La Svizzera, approvando questi accordi, perderà una parte della sua sovranità. Per avere buone relazioni con l’UE si tratta di un «male necessario»?
«Non credo che si possa parlare di perdita di sovranità. Questi accordi permettono di stabilizzare la relazione con il partner economico di gran lunga più importante per la Svizzera. Se uno Stato vuole partecipare al nostro mercato interno, deve giocare con le stesse regole. La Svizzera non ha solo un accordo di libero scambio, ha molto di più. E allora se vuole poter esportare e importare senza restrizioni e senza controlli deve applicare gli stessi standard. Se affitto il mio appartamento, perdo l’accesso ma dall’altra parte ho un guadagno. Nella vita non si può “voler tenere la botte piena dopo averne bevuto il vino”, è impossibile».

La perdita di sovranità però è un punto molto sensibile.
«I negoziatori svizzeri hanno spiegato che non volevano avere giudici stranieri che potessero decidere sulle leggi applicabili in Svizzera. Per questo abbiamo creato un tribunale arbitrale paritario che decide quando ci sono delle differenze tra le due parti. E poi c’è la clausola di salvaguardia sulla libera circolazione delle persone per i casi in cui si registrano gravi problemi economici e sociali. È una clausola che non ha nessuno dei nostri Stati membri, né nessun altro Paese associato».

C’è chi sostiene che questa clausola, concretamente, non potrà mai davvero essere attivata.
«Certo che si potrà. Fino ad adesso avevamo una clausola nella quale c'era bisogno dell'accordo delle due parti per utilizzarla. Ora la Svizzera può farlo anche unilateralmente. Se lo fa, però, noi possiamo rivolgerci al Tribunale arbitrale. Se questo considera che non è giustificato, ci potranno essere anche in questo caso delle misure di compensazione».

In caso di mancato accordo, è ancora possibile mantenere lo statu quo come sta avvenendo in questi anni?
«In un mondo che cambia così velocemente, lo stallo significa fare passi indietro. Credo che non sia un bene né per la Svizzera, né per l’Unione europea. Ma non voglio pensare in questi termini, perché abbiamo lavorato molto per andare avanti».

La Svizzera ha abbandonato l’accordo quadro nel maggio 2021. Ora c’è un nuovo tentativo. È l’ultima chiamata da Bruxelles, oppure ci sarà sempre un’altra via?
«Se parliamo dell’amicizia e delle buone relazioni tra la Svizzera e l'Unione Europea, non ci sono dubbi: ci saranno sempre, perché siamo vicini che condividono valori fondamentali. Siamo condannati a essere amici. Se invece ci si chiede se la Svizzera continuerà a godere dello stesso accesso privilegiato al mercato unico, non credo che la risposta sia positiva. Ci sarà un’erosione della relazione e dovremo cercare un’altra strada. Ma le vie non sono infinite».

Quali sarebbero?
«C’è lo Spazio economico europeo, che la Svizzera ha respinto nel 1992. La Norvegia, ad esempio, è molto soddisfatta dello SEE e ritiene che risponda agli interessi del Paese. C’è anche il modello britannico per chi vuole limitarsi al libero scambio. I britannici ora stanno cercando di migliorare quell’accordo, perchè vedono che non basta. Il Consiglio federale ha studiato questa questione parecchie volte e ha concluso che questo modello (gli accordi bilaterali, ndr) è quello che conviene di più alla Svizzera. Non siamo noi che spingiamo per questa cosiddetta via bilaterale».

Che bisogno e che urgenza ha l’Europa di stringere un accordo con la Svizzera? Per Bruxelles è davvero necessario?
«È necessario perché la Svizzera è un nostro vicino, si trova in mezzo all'Europa ed è il nostro quarto più grande partner economico. Mi viene da sorridere quando si parla di urgenza: stiamo provando a risolvere questi temi dal 2008. Ora si parla di un possibile voto popolare nel 2028, fra tre anni.... A volte la lentezza del processo politico svizzero, in un mondo che cambia così velocemente, mi sorprende un po’».

Ci sono tuttavia alcune zone di frontiera, ad esempio il Ticino o Ginevra, in cui la libera circolazione delle persone ha mostrato alcuni limiti.
«Questo è il prezzo del successo economico del vostro Paese e del vostro Cantone. Siete una regione attrattiva che offre molti posti di lavoro. Il tasso di disoccupazione è molto basso e ciò significa che c’è un bisogno reale di manodopera. Nel mio Paese, in Grecia, ci sono alcuni che si lamentano dell’iperturismo. Però dico se si promuove il Paese, se costruiamo alberghi e mettiamo a disposizione gli appartamenti per fare degli Airbnb è normale che la gente venga. Potreste incoraggiare le aziende svizzere a investire in altri Paesi e in altre regioni. Ma anche a causa dell’invecchiamento della popolazione, in Svizzera ci sarà sempre più bisogno di personale. Credo che in futuro avrà un vantaggiochi riesce a reclutare e mantenere la forza lavoro nel proprio Paese, e non chi vuole impedire alle persone qualificate di immigrare».

L’UDC parla apertamente da mesi di trattato di sottomissione, ma anche gli altri partiti hanno reagito solo tiepidamente ai risultati di questo accordo. La disturba?
«Dal 1992 (con il no allo SEE, ndr) la relazione Svizzera-UE è un tema molto sensibile. Tutti hanno un po’ paura di un’altra sconfitta in un referendum e vogliono essere prudenti. Ora però che gli accordi sono sul tavolo, si vedrà che i timori sono infondati. Chi parla di “accordo di sottomissione” è totalmente esagerato. Sono gli stessi che nel 1992 definivano “accordo coloniale” l’adesione allo Spazio economico europeo. Basterebbe andare in Norvegia, Paese ricco e molto fiero della sua sovranità, per rassicurarsi che in realtà c’è grande soddisfazione per questo accordo. Credo che gli svizzeri siano persone ragionevoli e moderate e quando vedranno il contenuto del nuoov pacchetto di accordi, lo accetteranno. Ma mi dispiace che nel dibattito pubblico non ci sia una narrazione più positiva».

In che senso?
«Abbiamo una relazione molto buona tra la Svizzera e l’UE. Il nostro compito adesso è di migliorarla, ma si sente sempre la gente che vede il bicchiere mezzo vuoto, quando in realtà è quasi pieno. Per esempio, riguardo alla libera circolazione delle persone, nessuno parla dei benefici che portano gli specialisti, come i medici e tutto il personale sanitario, che vengono a lavorare in Svizzera.La formazione di questa gente è stata pagata dal contribuente dei Paesi dell’UE. Quando questi professionisti poi vanno a lavorare in Svizzera, questo significa una perdita per i Paesi di provenienza. Gli svizzeri avrebbero motivo di esserne riconoscenti».

Dopo cinque anni a Berna, a fine agosto lascerà l’incarico. Quale è il suo bilancio e quale immagine della Svizzera porterà con sé?
«Lascio con il sentimento di aver passato cinque anni molto interessanti. La relazione tra UE e Svizzera ha fatto un passo importante in avanti. Ora siamo in una situazione migliore di quando sono arrivato e questo per me è un gran motivo di soddisfazione. La Svizzera è un bellissimo Paese, uno dei più belli in cui ho vissuto: ben organizzato, tecnologicamente avanzato, moderno e anche tradizionalista per certi versi. E con una grande diversità culturale per essere un territorio così piccolo».

E del Ticino?
«Ho visitato tutti i Cantoni e in Ticino sono stato una decina di volte. Bellissimo Cantone con gente molto gradevole. Si sente che ci si avvicina al mediterraneo, c’è più calore umano e più disinvoltura. Mi ricorderò sempre la visita ufficiale al governo cantonale il 24 febbraio 2022, seguita da un evento pubblico. Eravamo preparati a discutere dei “soliti temi”, le relazioni tra UE e Svizzera. Ma quella mattina la Russia invase l’Ucraina. D’improvviso c’era una guerra a due passi e parlammo quasi esclusivamente di quello. Questo ci mostra che il mondo sta cambiando. Lo scenario internazionale è diventato aspro e imprevedibile. È essenziale che le democrazie europee chiudano i ranghi e che la Svizzera e l’UE risolvano le questioni aperte nei loro rapporti bilaterali. Siamo molto più che partner commerciali: siamo dei partner affidabili, su cui si può contare».

«Quale Europa?» - Domani sera all’USI

Mercoledì 25 giugno, ore 18
Domani, dalle ore 18.00, nell’Auditorio Campus Ovest dell’Università della Svizzera italiana (USI) di Lugano, si terrà la conferenza «Quale Europa?» organizzata dal Movimento europeo Svizzero. Ci sarà una video-intervista a Romano Prodi, presidente della Commissione europea dal 1999 al 2004, e in seguito un colloquio in lingua italiana tra l’ambasciatore dell’UE a Berna Petros Mavromichalis e Ferruccio de Bortoli, editorialista del Corriere del Ticino.

Il profilo dell’ambasciatore
Petros Mavromichalis, classe 1964, è ambasciatore dell’UE a Berna dal settembre 2020. Rappresenta gli interessi dell’Unione europea in Svizzera e nel Liechtenstein. È nato ad Atene, possiede la doppia nazionalità greca e belga e parla sette lingue, tra cui l’italiano. Da oltre trent’anni lavora per le istituzioni dell’UE: avrebbe dovuto lasciare l’incarico a Berna (è il quarto diplomatico a occupare questo ruolo) già lo scorso agosto, ma il suo mandato è stato prorogato di un ulteriore anno per poter seguire la fine dei negoziati tra Svizzera e UE.