Jon Pult: «Non cambio solo per opportunismo politico»

Jon Pult è cresciuto tra i Grigioni, Milano e Zurigo e parla correttamente romancio, italiano e tedesco. Dal 2019 è consigliere nazionale e ora, a 39 anni, è alla caccia del seggio di Alain Berset in Consiglio federale. Lo abbiamo intervistato.
Signor Pult, cosa può portare lei in Consiglio federale, che attualmente non c’è?
«La mia candidatura rappresenta la diversità del Paese: quella linguistica, sociale, ma anche quella tra la città e la realtà rurale e alpina. Ho avuto la gran fortuna e il privilegio di crescere con una forte diversità culturale: mio padre è un romancio, mia madre italofona e sono cresciuto a Coira. Credo di poter rappresentare bene questa diversità e questo plurilinguismo elvetico. Inoltre, con Alain Berset, che ha 51 anni, si dimette il consigliere federale più giovane. Secondo me, avere una persona di mezza età tra i sette dell’Esecutivo sarebbe un vantaggio e un’opportunità per il Paese, anche perché porterebbe una prospettiva diversa sulla situazione attuale del mondo, del Paese e sulle sfide presenti e future. Con questo non voglio dire che i sessantenni valgano meno, ma credo siano già abbastanza rappresentati (Beat Jans ha 59 anni, ndr)».
Le viene rinfacciato di essere troppo profilato a sinistra e di non avere esperienza nell’Esecutivo. Quale fra questi fattori può rappresentare lo svantaggio maggiore il 13 dicembre?
«Non sto a giudicare gli svantaggi della mia candidatura. Io e Beat Jans siamo due classici socialisti svizzeri. Né io, né lui siamo di una sinistra radicale. Per quanto riguarda la mancanza di esperienza nell’Esecutivo, ritengo sia una domanda critica legittima: me la sono posta anche io quando ho riflettuto se candidarmi. Credo, penso e sono sicuro di avere le capacità e le qualità caratteriali per fare sia il capo di un dipartimento, sia lavorare in un collegio politico come il Consiglio federale».
All’interno della frazione del PS è molto apprezzato, ma come pensa di convincere l’ala destra del Parlamento?
«Provo a non fare il commentatore della corsa in cui sono coinvolto. Ho fatto vent’anni di politica a livello comunale, cantonale e nazionale. Jans è certamente una scelta di grande valore, quindi penso che le Camere federali abbiano una buona scelta. Io sono e rimarrò me stesso. Sono un socialista che crede in una Svizzera solidale con uno Stato sociale forte, che garantisca pari opportunità e concretizzi i valori della socialità. Allo stesso tempo però sono sempre stato aperto e interessato a capire i punti di vista delle altre forze politiche e di persone che hanno un’altra visione del mondo. L’aspetto positivo della politica svizzera è che sempre – o almeno spesso – si ha l’opportunità di trovare soluzioni e compromessi che vanno più o meno bene a tutti».
Non le chiedo quale dipartimento vorrebbe guidare. Ma in quale si sentirebbe più competente?
«È chiaro che al netto delle mie esperienze politiche sarebbe il DATEC (Pult, oltre a essere a capo dell’Iniziativa delle Alpi, è anche presidente della Commissione dei trasporti, ndr). Però, nel nostro sistema politico, non è necessario che una persona che ha più esperienza in un campo politico debba poi occuparsi di quel dipartimento. È la bellezza del sistema svizzero: non eleggiamo dei “ministri” per uno specifico Dipartimento. Ma eleggiamo sette membri di un organo esecutivo, collettivo e collegiale, che poi insieme trovano soluzioni. È geniale».
Lei è Albert Rösti avete posizioni profondamente diverse su molti temi all’interno del DATEC. Ci saranno scintille?
«No, scintille sicuramente no. Con Rösti, umanamente, ho un eccellente rapporto. Abbiamo collaborato molto bene, anche se abbiamo idee, posizioni e priorità differenti. Lui è un UDC, io sono socialista ed è anche normale che sia così. In ogni caso, entrambi abbiamo le nostre radici nell’arco alpino, quindi veniamo da realtà rurali in cui l’importanza del servizio pubblico, come la Posta, i trasporti pubblici e una telecomunicazione veloce sono elementi ancora più importanti rispetto ai grandi centri. C’è indubbiamente terreno comune su cui discutere e trovare soluzioni. Poi, da socialista, naturalmente avrei voluto altre decisioni, ad esempio sull’ampliamento delle autostrade».


Di sicuro si libererà un posto al DFI. Qual è la sua ricetta per ridurre i premi di cassa malattia?
«La mia opinione è molto chiara: bisogna ridurre il peso che per tante famiglie - e gran parte della popolazione - è quasi diventato insopportabile. Ci vuole un intervento politico, con un sistema di riduzione dei premi. Io sostengo l’iniziativa popolare del PS, su cui il popolo voterà l’anno prossimo («Al massimo il 10% del reddito per i premi di casse malattia»). Il resto deve essere finanziato dalla cassa dello Stato, quindi tramite le imposte che sono pagate a livello progressivo: chi ha di più paga di più e chi ha di meno paga di meno. Ci vuole una soluzione equa di questo tipo. Allo stesso tempo ci vorrà anche una riforma per eliminare le inefficienze dal sistema sanitario. Non dico di ridurre i costi, perché non è realistico, ma almeno di rallentarne la crescita. Si deve trovare un sistema più trasparente tra ospedali, medici e casse malattia, ma anche sui prezzi dei medicamenti e dei dispositivi medici. Il sistema sanitario deve essere un servizio pubblico, non una questione di business».
In questo ambito, però, non ha alcuna esperienza.
«Se dovessi essere eletto e mi trovassi al DFI, sarebbe un grande vantaggio quello di non aver alcun legame con nessuno all’interno del sistema sanitario. Potrei dire con piena credibilità che sono amico di tutti, ma parente di nessuno. In questo modo è possibile far sedere tutti attorno a un tavolo e cercare soluzioni congiunte. Sono comunque convinto che a medio termine ci voglia una riforma complessiva del sistema sanitario, per garantire che anche in futuro, in tutte le regioni del Paese, si abbia accesso a una medicina di alta qualità e che non si instauri in qualche modo un sistema di sanità all’americana, dove solo chi ha i soldi può permettersi le cure. Ma se vogliamo un sistema sanitario accessibile a tutti è necessaria una maggior ridistribuzione: i benestanti devono pagare di più».
A medio-lungo termine si dovrà anche garantire l’AVS. Come?
«L’anno prossimo la popolazione sarà chiamata a votare su due iniziative popolari che toccano l’AVS, ma che vanno in due direzioni diverse. La prima chiede una tredicesima mensilità, l’altra mira ad aumentare l’età pensionabile. Secondo me, il Consiglio federale e il futuro capo del DFI dovranno prima vedere cosa decide il popolo, anche perché i risultati potrebbero cambiare le carte in tavola sulle possibili riforme. In ogni caso, oggi come oggi, credo che la maggioranza della popolazione elvetica non voglia aumentare l’età pensionabile. Lo capisco e sostengo anche io questa posizione. Non credo che socialmente sia un obiettivo a cui aspirare: chi guadagna bene e ha tanti soldi, spesso va in pensione già prima dei 65 anni».
Cambiamo argomento. Lei è favorevole all’adesione all’UE. La volontà popolare tuttavia è ben diversa.
«È vero, una grandissima maggioranza della popolazione non vuole l’adesione all’UE e devo rispettare questa volontà. Trovo che la priorità attuale adesso sia quella di trovare una soluzione istituzionale per stabilizzare la nostra relazione con Bruxelles, in particolare per quanto riguarda la ricerca. Non poter più far parte di Horizon Europe è un grosso problema per i ricercatori e le ricercatrici del nostro Paese, così come per l’intero settore universitario e della ricerca. Per farlo, è necessario lavorare su più fronti: accanto a un negoziato concreto o a una serie di accordi con l’UE, è importante elaborare nel contempo un pacchetto di riforme interne come contromisure ai possibili svantaggi. Questa è stata la chiave per il successo dei bilaterali I negli anni ‘90. E penso che dobbiamo procedere in questo modo anche adesso: con riforme interne e misure di accompagnamento per tutelare, ad esempio, i salari».
Al momento, in particolare da parte dell’UDC, non c’è la volontà politica di perdere la sovranità. Si giungerà mai a un accordo che soddisfi le parti?
«Voglio essere sincero: sappiamo che l’intera politica bilaterale tra la Svizzera e l’Europa degli ultimi vent’anni, che credo sia stata una storia di successo per la Confederazione, è stata fatta grazie agli altri partiti. L’UDC, fondamentalmente, è sempre stata molto scettica. Ci vuole un’alleanza, una coalizione degli altri partiti politici e degli altri attori coinvolti. Capisco l’argomentazione sulla possibile perdita di sovranità. È una questione reale. Ma tante decisioni, in un mondo globalizzato, vengono prese comunque a Bruxelles. Per noi è importante avere buone relazioni, ma abbiamo anche bisogno di far sentire la nostra voce e difendere i nostri interessi al tavolo di discussione».


In passato ha già detto chiaramente di non voler rinunciare al doppio passaporto, a differenza di Ignazio Cassis. Perché?
«Sono nato da una madre italiana e da un padre svizzero. Sono quindi nato da doppio cittadino e non voglio cambiare chi sono per opportunismo politico. Non sono pronto a negare una parte del mio passato e della mia identità. Io, comunque, sono un cittadino svizzero e faccio politica in Svizzera. Il mio patriottismo non è in discussione».
Attraversiamo profonde crisi a livello geopolitico. È giunto il momento di ripensare il concetto di neutralità?
«La neutralità può essere uno strumento della politica estera svizzera solo se viene declinata in modo moderno: per questo credo in una neutralità attiva basata su tre elementi. Primo: siamo indipendenti e quindi neutrali dal punto di vista militare. Non possiamo pertanto far parte della NATO. Secondo: la Svizzera, politicamente, deve stare dalla parte del diritto internazionale: dobbiamo essere gli avvocati della Carta delle Nazioni Unite e dei suoi principi. Non deve esserci neutralità se qualcuno non rispetta il diritto internazionale. Infine, a livello economico dobbiamo diminuire la dipendenza del nostro Paese da business e denaro che provengono da realtà problematiche da un punto di vista politico. È anche una questione di coerenza. Non voglio una piazza finanziaria che trae profitto da guerre, da dittature o da ingiustizie».