L'intervista

Jürg Keim: «È comprensibile che una guerra in Europa ci colpisca in modo particolare»

Con il portavoce di UNICEF per Svizzera e Liechtenstein ripercorriamo l'ultimo decennio e affrontiamo la tempesta perfetta rappresentata da pandemia, cambiamento climatico e conflitto in Ucraina: «Ma siamo riusciti ad attirare l’attenzione anche su altre drammatiche crisi umanitarie»
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Marcello Pelizzari
25.01.2023 16:30

Siccità. Inondazioni. Epidemie. Perfino una pandemia. Uragani. Terremoti. L’ultimo decennio, beh, non è certo stato semplice. Nel 2022, si stima che oltre 400 milioni di bambini vivessero in zone interessate da conflitti. E ancora: 36,5 milioni di loro hanno dovuto abbandonare le loro case. Fuggire, sì.

Altro giro, altro dato: un miliardo di bambini è esposto ai rischi estremi dovuti al cambiamento climatico. Di più, le conseguenze (dolorosissime) della citata pandemia e della guerra in Ucraina si avvertiranno ancora per anni. Se non decenni.

A dirlo è l’UNICEF, il Fondo delle Nazioni Unite per l'infanzia, che prosegue – incessantemente – la sua missione grazie ai contributi volontari e che, in un post dettagliato sul suo blog, ha elencato nel dettaglio quanto fatto in questi ultimi dieci anni. Per saperne di più, abbiamo intervistato il portavoce di UNICEF per Svizzera e Liechtenstein, Jürg Keim.

Signor Keim, negli ultimi anni è come se il mondo fosse stato investito da una tempesta perfetta: il cambiamento climatico, la crisi sanitaria legata al coronavirus, la guerra in Ucraina. Detto che, da sempre, UNICEF sa lavorare su più fronti, quanto è stato complicato gestire così tanti stimoli e così tante richieste di aiuto nello stesso momento e per cause apparentemente diverse fra loro?
«La nostra organizzazione si impegna per i diritti dell’infanzia in oltre 190 Paesi e territori, anche nei luoghi più ostili della terra al fine di raggiungere i bambini e gli adolescenti più vulnerabili. Spesso, siamo sul posto prima dell’inizio di una crisi. Il che ci consente di reagire rapidamente. E ci restiamo anche quando la crisi è rientrata per assicurare la sopravvivenza, la crescita sana e lo sviluppo del potenziale dei minori colpiti».

Nel vostro articolo sul blog vengono citati conflitti noti, come quello ucraino appunto, e altri meno mediatizzati come la guerra civile in Yemen: quanto è difficile e, allo stesso tempo, quanto è importante mantenere alta l’attenzione anche su problematiche meno note al grande pubblico?
«Ogni giorno le redazioni decidono quali eventi riportare. Di solito, preferiscono quelli già noti al pubblico e che provocano un impatto emotivo, ragione per la quale molte delle attuali crisi vengono trascurate dagli organi di informazione tradizionali o non sono considerate nella pianificazione, anche a causa della mancanza di risorse. Per diffondere i nostri contenuti, ci avvaliamo quindi anche di altri canali, come il sito unicef.ch e i nostri profili sui media sociali. Pure le nostre comunicazioni, sotto forma di newsletter o su carta, sono elementi centrali e irrinunciabili del nostro lavoro».

È comprensibile che una guerra in Europa ci colpisca in modo particolare, e che ciò induca le donatrici e i donatori a fornire contributi più cospicui

Di riflesso, quanto è più complicato ricevere donazioni per cause che, ai più, sembrano lontane? Formuliamo meglio: la guerra in Ucraina ci tocca molto, moltissimo, la sentiamo molto «nostra». È più difficile, invece, provare empatia verso qualcosa di geograficamente (a volte anche culturalmente) più lontano.
«Secondo la nostra esperienza, la popolazione svizzera è molto generosa. Le crisi di più ampia portata generano anche maggiore solidarietà. È comprensibile che una guerra in Europa ci colpisca in modo particolare, e che ciò induca le donatrici e i donatori a fornire contributi più cospicui. Ma anche quando il conflitto ucraino monopolizzava le prime pagine, siamo riusciti ad attirare l’attenzione su altre drammatiche crisi umanitarie, per esempio quella in Africa orientale, dove l’ONU stima che nel 2023 qualcosa come 339 milioni di persone in 69 Paesi avranno bisogno di aiuti umanitari, un aumento di 65 milioni rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Per i soli aiuti d’emergenza, quest’anno abbiamo preventivato in totale 10,3 miliardi di dollari a favore di oltre 173 milioni di bambini a rischio e delle loro famiglie nel mondo».

C’è ancora, da parte della popolazione, una certa ritrosia nel donare? Magari con la sensazione che i soldi non arrivino davvero a destinazione e non aiutino davvero chi ne ha bisogno. Che cosa fa, in questo senso, l’UNICEF per dimostrare che tutto ciò che viene versato arriva dove deve arrivare?
«Il marchio UNICEF gode di un certo grado di notorietà e anche di grande fiducia da parte della popolazione per quanto riguarda la destinazione e il corretto impiego delle donazioni. Ciò è probabilmente dovuto anche al fatto che siamo attivi in quasi tutto il mondo, spesso da decenni, e collaboriamo con organizzazioni partner locali e internazionali, nonché con i vari governi. Diamo inoltre grande importanza alla trasparenza: nei rapporti annuali, per esempio, sono chiaramente indicati gli importi destinati ai vari programmi».

La domanda può sembrare banale, ma perché i bambini soffrono sempre di più rispetto alle persone adulte? Quali sono, nel concreto, i passi di UNICEF per proteggerli al meglio?
«A essere più a rischio sono sempre le persone più vulnerabili della società, tra le quali troviamo appunto i bambini. Noi ci impegniamo per proteggere i più svantaggiati, cioè le vittime di guerre, catastrofi, povertà estrema, violenza in tutte le sue forme e sfruttamento. A tale scopo, collaboriamo con i nostri partner per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile decisi dalla comunità internazionale e per l’attuazione sistematica dei diritti dell’infanzia. Coordinandoci con altre organizzazioni onusiane e ONG, mettiamo a disposizione le nostre eccezionali capacità di risposta rapida per alleviare le sofferenze dei bambini e di chi si prende cura di loro».

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