Jürg Keim: «È comprensibile che una guerra in Europa ci colpisca in modo particolare»
Siccità. Inondazioni. Epidemie. Perfino una pandemia. Uragani. Terremoti. L’ultimo decennio, beh, non è certo stato semplice. Nel 2022, si stima che oltre 400 milioni di bambini vivessero in zone interessate da conflitti. E ancora: 36,5 milioni di loro hanno dovuto abbandonare le loro case. Fuggire, sì.
Altro giro, altro dato: un miliardo di bambini è esposto ai rischi estremi dovuti al cambiamento climatico. Di più, le conseguenze (dolorosissime) della citata pandemia e della guerra in Ucraina si avvertiranno ancora per anni. Se non decenni.
A dirlo è l’UNICEF, il Fondo delle Nazioni Unite per l'infanzia, che prosegue – incessantemente – la sua missione grazie ai contributi volontari e che, in un post dettagliato sul suo blog, ha elencato nel dettaglio quanto fatto in questi ultimi dieci anni. Per saperne di più, abbiamo intervistato il portavoce di UNICEF per Svizzera e Liechtenstein, Jürg Keim.
Signor Keim,
negli ultimi anni è come se il mondo fosse stato investito da una tempesta
perfetta: il cambiamento climatico, la crisi sanitaria legata al coronavirus,
la guerra in Ucraina. Detto che, da sempre, UNICEF sa lavorare su più fronti,
quanto è stato complicato gestire così tanti stimoli e così tante richieste di
aiuto nello stesso momento e per cause apparentemente diverse fra loro?
«La nostra
organizzazione si impegna per i diritti dell’infanzia in oltre 190 Paesi e
territori, anche nei luoghi più ostili della terra al fine di raggiungere i
bambini e gli adolescenti più vulnerabili. Spesso, siamo sul posto prima
dell’inizio di una crisi. Il che ci consente di reagire rapidamente. E ci
restiamo anche quando la crisi è rientrata per assicurare la sopravvivenza, la
crescita sana e lo sviluppo del potenziale dei minori colpiti».
Nel vostro
articolo sul blog vengono citati conflitti noti, come quello ucraino appunto, e
altri meno mediatizzati come la guerra civile in Yemen: quanto è difficile e,
allo stesso tempo, quanto è importante mantenere alta l’attenzione anche su
problematiche meno note al grande pubblico?
«Ogni giorno le
redazioni decidono quali eventi riportare. Di solito, preferiscono quelli già
noti al pubblico e che provocano un impatto emotivo, ragione per la quale molte
delle attuali crisi vengono trascurate dagli organi di informazione
tradizionali o non sono considerate nella pianificazione, anche a causa della
mancanza di risorse. Per diffondere i nostri contenuti, ci avvaliamo quindi
anche di altri canali, come il sito unicef.ch
e i nostri profili sui media sociali. Pure le nostre comunicazioni, sotto forma
di newsletter o su carta, sono elementi centrali e irrinunciabili del nostro
lavoro».
Di riflesso,
quanto è più complicato ricevere donazioni per cause che, ai più, sembrano
lontane? Formuliamo meglio: la guerra in Ucraina ci tocca molto, moltissimo, la
sentiamo molto «nostra». È più difficile, invece, provare empatia verso
qualcosa di geograficamente (a volte anche culturalmente) più lontano.
«Secondo la nostra
esperienza, la popolazione svizzera è molto generosa. Le crisi di più ampia
portata generano anche maggiore solidarietà. È comprensibile che una guerra in
Europa ci colpisca in modo particolare, e che ciò induca le donatrici e i
donatori a fornire contributi più cospicui. Ma anche quando il conflitto
ucraino monopolizzava le prime pagine, siamo riusciti ad attirare l’attenzione
su altre drammatiche crisi umanitarie, per esempio quella in Africa orientale,
dove l’ONU stima che nel 2023 qualcosa come 339 milioni di persone in 69 Paesi
avranno bisogno di aiuti umanitari, un aumento di 65 milioni rispetto allo
stesso periodo dell’anno scorso. Per i soli aiuti d’emergenza, quest’anno
abbiamo preventivato in totale 10,3 miliardi di dollari a favore di oltre 173
milioni di bambini a rischio e delle loro famiglie nel mondo».
C’è ancora,
da parte della popolazione, una certa ritrosia nel donare? Magari con la
sensazione che i soldi non arrivino davvero a destinazione e non aiutino davvero
chi ne ha bisogno. Che cosa fa, in questo senso, l’UNICEF per dimostrare che
tutto ciò che viene versato arriva dove deve arrivare?
«Il marchio UNICEF
gode di un certo grado di notorietà e anche di grande fiducia da parte della
popolazione per quanto riguarda la destinazione e il corretto impiego delle
donazioni. Ciò è probabilmente dovuto anche al fatto che siamo attivi in quasi
tutto il mondo, spesso da decenni, e collaboriamo con organizzazioni partner
locali e internazionali, nonché con i vari governi. Diamo inoltre grande
importanza alla trasparenza: nei rapporti annuali, per esempio, sono
chiaramente indicati gli importi destinati ai vari programmi».
La domanda
può sembrare banale, ma perché i bambini soffrono sempre di più rispetto alle
persone adulte? Quali sono, nel concreto, i passi di UNICEF per proteggerli al
meglio?
«A essere più a
rischio sono sempre le persone più vulnerabili della società, tra le quali
troviamo appunto i bambini. Noi ci impegniamo per proteggere i più
svantaggiati, cioè le vittime di guerre, catastrofi, povertà estrema, violenza
in tutte le sue forme e sfruttamento. A tale scopo, collaboriamo con i nostri
partner per il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile decisi
dalla comunità internazionale e per l’attuazione sistematica dei diritti
dell’infanzia. Coordinandoci con altre organizzazioni onusiane e ONG, mettiamo
a disposizione le nostre eccezionali capacità di risposta rapida per alleviare
le sofferenze dei bambini e di chi si prende cura di loro».